La voluta scelta di morte dei coniugi Van Agt, mano nella mano, in Olanda mi suscita un profondo sentimento di commozione. Probabilmente non mancheranno le critiche dei cattolici più ortodossi che ritengono che il bene vita in qualsiasi condizione fisica e psichica debba essere conservato e tutelato.

Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta verso la morte ritenuta socialmente o, peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno delle scelte eutanasiche o dalla possibilità di consentire al paziente di accettare o rifiutare i trattamenti terapeutici anche salvavita, ma dall’attuale “cultura della morte”. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti. E l’attuale cultura della morte non dovrebbe consentire che vengano impedite scelte del genere di quella vissuta in Olanda, dettata da un principio fondamentale, quello della dignità di ciascuno di noi.

Il modo con cui una società tratta i morenti è un segno di profonda civiltà, e di questa civiltà è difficile fare a meno qualunque sia l’etica che ci tiene in vita. Certamente la sentenza della Corte costituzionale 242/ 219 e la legge 219/ 2017 ci hanno aperto una strada verso il riconoscimento di una medicina anti paternalista che vuole il consenso del paziente al centro dell’alleanza terapeutica, base irrinunciabile per l’accettazione o il rifiuto del trattamento sanitario.

Tuttavia siamo certi per quel che sta accadendo nella realizzazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato nel nostro Paese i coniugi Van Agt difficilmente avrebbero potuto realizzare il proprio fine vita “mano nella mano”. Le decisioni che hanno affrontato in questo periodo i problemi dati dai vuoti presenti nella sentenza della Corte costituzionale hanno dimostrato la mancanza di principi e di orientamenti sicuri in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra il rispetto della persona e gli obblighi di legge. Non stupisce allora la difficoltà che vi è stata nel ricavare dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del diritto inalienabile di rifiutare o interrompere trattamenti terapeutici quando vi sia un processo causale che naturalmente conduca alla morte, quando i mezzi ancora in grado di opporsi a tale evento siano onerosi fisicamente e psicologicamente per il paziente e quando siano chiamati in causa l’operatore sanitario o comitati etici nominati occasionalmente. Anche in occasione di una sentenza quale quella della Corte costituzionale che sembrava poter finalmente aprire la strada a scelte di fine vita, giustificate da molteplici condizioni, si è trovato il modo da parte del legislatore di ritardare qualsiasi intervento legislativo e di lasciare ora alle Regioni il compito di definire Il suicidio assistito. Il risultato che emerge sarà quello di un diritto non garantito in modo uniforme nel nostro Paese.