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caposcorta giudice di matteo
“La condizione di questa indipendenza (della magistratura, ndr) è che non partecipi agli altri poteri dello Stato, quello esecutivo-governativo e quello legislativo’’. Sono parole di Sabino Cassese, giurista e giudice emerito della Corte costituzionale in una recente intervista a Il Dubbio. Il giurista e giudice emerito della Corte costituzionale aggiungeva poi che uno Stato che non ha una separazione dei poteri non ha una Costituzione. In Italia la magistratura inquirente ha imposto una trasformazione nel diritto e nella procedura penale, che ha alterato le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato. Come nella “Fattoria degli animali”, l’ordine giudiziario “è più uguale degli altri”.
Trent’anni fa le procure ridisegnarono il sistema politico che aveva governato, con qualche cambiamento, il Paese nel dopoguerra e da allora tengono sotto scacco i partiti e il potere legislativo facendo valere i crediti maturati nei confronti di quelle forze politiche a cui, ai tempi di “Mani pulite”, fu garantita l’impunità e negli anni successivi il braccio armato contro quel tycoon sceso in campo nel 1994 con l’obiettivo di salvare le sue aziende e che, senza che nessuno se lo aspettasse, aveva fatto saltare i progetti della “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti, quando già pregustavano di aver vinto con facilità.
Chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale non può non condividere quanto persino un avversario politico di Silvio Berlusconi, come Massimo D’Alema disse in occasione della sua morte: “In fondo Silvio Berlusconi aveva più di qualche motivo nell'avanzare perplessità sull'operato di alcuni giudici nei suoi confronti”. Del resto un ordinamento statuale nasce sempre in seguito ad una rottura con quello precedente. Se la Prima Repubblica era nata dalla Resistenza, la Seconda è figlia della Procura di Milano e della predicazione contro la politica a fronte della beatificazione della magistratura (in particolare quella inquirente) e dei suoi campioni esposti come trofei sui media.
Quello penale è divenuto un diritto totale “perché - ha scritto Filippo Sgubbi - è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male”. La giurisprudenza è divenuta, nei reati come il concorso esterno, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Anche l’economia non è più al riparo di questo sviamento di potere. Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili (si veda la ex Ilva) incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – si leggano le pagine di Alessandro Barbano - la magistratura entra impropriamente nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali e talvolta del tutto arbitrari.
Negli ultimi tempi sono venuti segnali inquietanti di un’ingerenza togata nel campo delle relazioni industriali e dell’autonomia collettiva delle parti sociali. Le toghe si sono assunte il compito di risolvere i problemi del lavoro povero e del salario minimo sia sul versante penale che su quello civile. Nel primo caso l’iniziativa è partita dalla procura di Milano che ha preso di mira il contratto della vigilanza privata. Le grandi aziende del settore sono state indagate per la violazione della legge sul caporalato e per sfruttamento dei lavoratori. Ciò ha consentito di sottoporle a un commissariamento, sospeso se e quando le aziende aumentavano unilateralmente le retribuzioni rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo, ritenute troppo basse rispetto ai criteri di proporzionalità e sufficienza di cui all’articolo 36 della Costituzione. In sostanza l’operazione iniziava e si concludeva, al di fuori del processo, con una vera e propria “estorsione” nei confronti di aziende che pur applicavano un contratto sottoscritto con le controparti sindacali.
Sul versante del diritto del lavoro e sindacale si è pronunciata addirittura la Cassazione (con sentenza n.27711/2023). ‘’L’intervento giudiziale - ha precisato la Corte - può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”. Dal momento che “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”. Spetta dunque al giudice di merito “valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.”, mentre il lavoratore “ deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità”.
Questa sentenza sovverte una giurisprudenza consolidata in base alla quale – anche in mancanza dell’efficacia generale dei contratti – i giudici attribuivano i requisiti della retribuzione proporzionata e sufficiente a quella prevista nei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative, evitando di sindacare ciò che le parti avevano concordato. Vengono meno, adesso, quelle certezze che sono indispensabili alla conduzione di una qualunque impresa, a partire dal costo del lavoro, il cui ammontare potrebbe essere messo in discussione anche quando su di esso fosse stata raggiunta un’intesa nell’ambito della contrattazione collettiva di diritto comune.
Seconda questa logica finirebbe sub judice lo stesso salario minimo stabilito per legge nonché il contratto collettivo nazionale stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, anche se si trovasse un meccanismo per renderne erga omnes l’applicazione; perché sarebbe comunque il giudice a dire l’ultima parola. Il tribunale si trasformerebbe, così, in un’autorità salariale (come era la magistratura del lavoro in epoca fascista) al posto di quei sindacati che plaudono, per disperazione e senza vergogna, all’operato della Cassazione.