Il Senato, quello non di chissà quale accademia ma della Repubblica, più contenuto della Camera ma presieduto dalla seconda carica dello Stato, e quindi un po’ il ramo nobile del Parlamento, è stato imbrattato più volte, almeno tre, in questi primi ma poco fausti giorni del nuovo anno.

La prima volta dimostranti armati di vernici al servizio - dicono - della causa dell’ambiente e simili hanno imbrattato la facciata di Palazzo Madama approfittando “vigliaccamente” di una rete di sorveglianza e di sicurezza minore rispetto ad altre che proteggono Montecitorio, o Palazzo Chigi, o il Quirinale, come ha ricordato il presidente Ignazio La Russa. Che ha naturalmente deciso di muoversi per ridurre lo svantaggio improvvidamente accumulato dai suoi troppo ottimisti predecessori. Come dargli torto? Ma i soliti, chiamiamoli così, ci hanno già provato lo stesso.

Uno dei giornali più orgogliosamente nuovi e proiettati sul futuro, tanto da essere stato chiamato Domani dal suo editore Carlo De Benedetti, stanco della improvvida rinuncia dei suoi eredi alla ben più solida e diffusa Repubblica, ha diviso la sua prima pagina dopo il fattaccio fra una cronaca lacrimevole e un commento di solidarietà agli autori della protesta, realizzando così un secondo, sostanziale imbrattamento.

«I politici - raccontava il titolo di cronaca dell’azione contro il Senato - hanno più paura di un po’ di vernice che della crisi climatica». «Un gruppo di militanti di Ultima generazione - continuava il racconto sommario dell’accaduto, con tutte le maiuscole e le minuscole al loro posto - ha imbrattato la facciata di palazzo Madama. I ragazzi rischiano multe e carcere. Intanto il governo Meloni annuncia nuove misure di sicurezza». E che altro doveva fare? Mi chiedo considerando che le indagini e tutto il resto è competenza della magistratura rigorosamente libera e autonoma.

«Hanno ragione loro a sposare la superficie dell’indifferenza», gridava il titolo di un editoriale- arringa «in difesa degli attivisti» firmato dal direttore in persona, probabilmente gonfiando di giovanilismo il petto dell’anziano editore. Che i suoi anni, del resto, se li porta meravigliosamente.

Il terzo imbrattamento, volontario o casuale che sia, è quello consumatosi con la denuncia fotografica, da parte di due giornali stavolta di area di destra, Libero e Il Tempo, di un Senato disertato dalle opposizioni nella seduta convocata, pur ad alberi di Natale ancora esposti e illuminati nelle case private e pubbliche, per l’annuncio, arrivo, deposito e quant’altro del decreto legge ormai abituale dal titolo, o soprannome, che parla da solo: mille proroghe, in due o anche in una sola parola.

Un’aula parlamentare desolatamente vuota, in tutti o in una parte cospicua dei suoi settori, fa sempre una certa impressione e, se volete, anche tristezza naturalmente. Ma imbrattarla di una malizia - direi - di sapore qualunquistico, nel segno di un’antipolitica che possiamo considerare indifferentemente figlia o madre dell’antiparlamentarismo, non mi sembra cosa di cui potersi vantare. E tanto meno scambiare per uno scoop.

Si dirà in difesa di questi altri “attivisti” - per rimanere nel solco del direttore di Domani a proposito dei primi imbrattatori- che la seduta di cosiddetto annuncio o arrivo di un decreto legge, da convocare entro cinque giorni, è imposta dall’articolo 77 della Costituzione in un testo concepito e scritto nella presunzione di una effettiva, reale straordinarietà e urgenza dello strumento «temporaneo» - dice anche questo la norma costituzionale - del decreto legge. Ma il deposito, annuncio e quant’altro di simile non significa discussione e votazione in aula, essendo di due mesi il tempo lasciato alle Camere dalla stessa Costituzione per l’approvazione, conversione o come altro volete chiamare il sì del Parlamento. Questo lo capisce anche un alunno di prima elementare, senza bisogno di arrivare all’Università e alla laurea in legge, e tanto meno alla cattedra.

Se il livello di alfabetizzazione giuridica è sceso così in basso nella politica sia di chi la fa sia di chi la racconta e la commenta, è forse il caso di modificare l’articolo 77 della Costituzione con precedenza assoluta, prima di arrivare alle vette del presidenzialismo, e sue varianti, riproposto dalla presidente del Consiglio. Che vi è arrivata peraltro non per prima come da donna a Palazzo Chigi - ma per ultima in una lista di presidenzialisti aperta già nell’Assemblea Costituente dal giurista e azionista Piero Calamandrei.

Questo lo ricordo anche a quelli che in questo 2023 appena cominciato hanno l’aria di salire in montagna, come i padri o nonni partigiani della Resistenza, se davvero si dovesse arrivare all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, o del Consiglio.