Per chi come me lo ha vissuto in prima persona nell’aula di un tribunale, resta ancor oggi difficile descrivere che cosa sia stato il caso Enzo Tortora: dall’inizio delle indagini (quali?) sino all’allucinante sentenza di condanna di primo grado, poi legittimamente riformata nei successivi gradi di giudizio ( presso la Corte di Appello di Napoli e la Corte di Cassazione) che hanno sancito la sua assoluta innocenza.

Per evitare di farmi prendere dalla passione mi richiamo pertanto al pensiero di alcuni autorevoli esponenti del giornalismo (Enzo Biagi, Leonardo Sciascia, Alessandro Galante Garrone, Italo Mereu, Giorgio Bocca, Piero Angela e Vittorio Feltri) che sollevarono immediatamente il beneficio del dubbio con dichiarazioni perentorie e critiche sull’operato dei magistrati titolari di quel procedimento. A queste si sono poi aggiunte voci importanti dallo stesso mondo giudiziario. Giancarlo Caselli, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Torino, parlò di sciatteria e di grandi omissioni degli inquirenti.

Franco Ippolito, già segretario di Magistratura Democratica, discutendo sul caso “de quo” ebbe a esprimersi in questi termini: «Non si può continuare a tacere sui comportamenti tenuti da alcuni colleghi. La vicenda drammatica di Enzo Tortora ha costituito una lacerazione profonda che ogni magistrato dovrebbe sentire bruciante dentro di sé».

Per parte mia e dei colleghi coi quali ho condiviso questa drammatica vicenda (il compianto professor Alberto Dall’Ora e l’avvocato Antonio Coppola di Napoli), posso semplicemente ricordare che quando nel corso di quell’assurda, lacunosa se non inesistente istruttoria compresi scoraggiato che gli inquirenti accettavano acriticamente la scorciatoia facile e appagante del pentitismo rozzo, strumentale e chiaramente interessato – rifiutando la strada faticosa della rigorosa ricerca dei riscontri – mi consolavo dicendomi: «ci dovrà pur essere un Giudice a Berlino!». E invece nella maxi- aula del tribunale di Napoli trovammo giudici più amici di “Federico” che della giustizia. Giudici che hanno cominciato a dileggiarci prima ancora di avere chiarito per quali reati (e non apparenti e cervellotici motivi) Enzo Tortora fosse colpevole. Giudici che non hanno esitato a emettere un giudizio profondamente errato, arrogandosi addirittura il diritto di deriderci.

Fortunatamente la mia mal riposta speranza non andò completamente distrutta. Fu così che mi accinsi a predisporre i lunghi motivi di appello, criticando con puntiglio la metodologia improntata a parzialità di scelte probatorie, a travisamenti e a omesse indagini, ricca di proposizioni illogiche gratuite oltre che di non necessarie cattiverie. La Corte di Appello di Napoli – rinnovando l’istruttoria e assumendo quelle testimonianze che, pur richieste ripetutamente nel corso delle indagini e in dibattimento, non erano mai state accolte – pronunciò infine una ineccepibile sentenza assolutoria. Spiegherà tempo dopo, anche a nome dei suoi colleghi Antonio Rocco e Carmine Ricci, il consigliere relatore Michele Morello: «Per condannare Enzo Tortora avremmo dovuto affermare una infinità di bestialità… Lo abbiamo invece giudicato con indipendenza, serenità e chiarezza». Una precisazione questa che mi ha restituito quel sentimento profondo e affettuoso per la magistratura che nel corso delle indagini e del giudizio di primo grado si era fortemente appannato.

C’è ora da chiedersi cosa resti del caso Enzo Tortora. Le sue ceneri sono custodite al cimitero monumentale di Milano in una colonna di marmo con capitello corinzio dove campeggia la scritta “Che non sia un’illusione”. Credo restino un monito per tutti noi, un invito a restare vigili contro il riaffiorare della cultura del sospetto, del pregiudizio, di una ragione di giustizia che talvolta fa del magistrato una parte irridente, quasi vendicativa. Col rischio che in mancanza di attenti controlli l’avvocato difensore venga sottomesso e diventi remissivo o, peggio ancora, indifferente per rassegnazione. Sarebbe la sconfitta della democrazia. E con essa si esaurirebbe la funzione stessa del giudice, a quel punto sostituito da un computer privo di lingua oltre che di cuore.