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Roma, protesta dell'Associazione Luca Coscioni contro l'inerzia legislativa per l'eutanasia legale
In Italia, analogamente a molti Paesi, è centrale nella discussione del biodiritto il cosiddetto “fine vita”, ossia la regolazione di come morire, in una era caratterizzata dall’avanzamento delle tecnologie biomediche che configurano inedite condizioni di esistenza. La Legge n. 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” ha introdotto una regolazione sul rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari sulla base dell’autonomia del soggetto, sul dovere delle strutture sanitarie di astenersi da ostinazione irragionevole di cure sproporzionate, sulla liceità della sedazione profonda e delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT).
Con la ordinanza n. 207/2018 e poi con la sentenza n. 242/2019 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione del suicidio assistito, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13, primo comma e 32 secondo comma Cost. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di una persona: a) affetta da una patologia irreversibile; b) subisca a causa di essa sofferenze fisiche o psicologiche, che egli ritenga intollerabili; c) tenuta in vita mediante appositi trattamenti di sostegno vitale (TSV); d) risulti capace di decisioni libere e consapevoli.
È necessario poi che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Consulta ha precisato che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio “non è di per sé in contrasto con la Costituzione, ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita specie delle persone più deboli e vulnerabili che l’ordinamento intende proteggere, evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quello del suicidio”.
La decisione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 del diritto di ciascuno di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. La pronuncia della Corte determina dunque un passaggio dal “lasciar morire”, già recepito e riconosciuto come diritto del paziente dalla L. n. 219/2017, “all’aiuto a morire medicalizzato” ora non punibile, qualora sussistano le procedure e le condizioni del paziente sopra indicate. Primario fra le altre condizioni il fatto che il soggetto sia in grado di prendere in modo autonomo la pozione fatale, preparata dal medico.
Ci si allontana, dunque, da una possibile diversa situazione: quella in cui il soggetto si avvalga per la sua morte del prodotto letale somministrato da un terzo (un medico, un familiare, un amico, ecc.), che svolge un ruolo primario e continuo nell’ambito dell’intera vicenda. Per il nostro ordinamento questo è un atto criminoso definito come “omicidio del consenziente” (art. 579 c.p.) e generalmente indicato come eutanasia.
Va ricordato che l’ordinanza aveva ritenuto opportuno che tale vicenda fosse in seguito regolamentata dal legislatore nell’arco di un anno, così da poter sanare quelle situazioni di incertezza che l’ordinanza costituzionale, come in seguito la sentenza, inevitabilmente avrebbero suscitato. Questo invito, ripreso dal ddl Bazoli (2022), che recepisce in modo abbastanza fedele, anche se in modo restrittivo, la sentenza della Consulta ed approvato alla Camera, non fu preso in considerazione in Senato dal successivo governo ideologicamente contrario alla decisione della Corte costituzionale, portata a tutelare sempre e comunque il bene vita. Pertanto, ancora oggi il legislatore tace.
E la maggioranza blocca la legge attraverso una serie di audizioni (circa 90 associazioni di area cattolico-integralista). Viene spontaneo pensare che la sofferenza può certamente attendere e che la politica abbia altro da fare. Se le teorie divergono sul valore da attribuire alla vita umana, sono le circostanze reali e complesse alla fine della vita, sono i malati che soffrono in modo insopportabile in alcune condizioni concrete a sollecitare il dibattito politico.
Questo non può rimanere astratta contrapposizione teorica, ma è chiamato a guardare in faccia la realtà e dare regole concrete alle situazioni emergenti. Così nell’arco di questo periodo di tempo a fronte del colpevole silenzio del legislatore sono intervenuti diversi tribunali regionali: Massa, Ancona, Trieste, Milano e Firenze, che hanno dovuto affrontare e verificare le richieste dei pazienti di accedere al suicidio medicalmente assistito, l’idoneità dei medicinali da somministrare, la procedura da seguire, discutere le eventuali impugnabilità del provvedimento stesso e, infine, i costi richiesti dalla commissione.
La verità è che i pazienti che hanno dovuto far ricorso all’aiuto al suicidio medicalizzato, così come previsto dalla Corte Costituzionale, hanno visto tempi molto lunghi perché il loro diritto venisse rispettato.
Un tempo troppo lungo per pazienti che si trovano in condizioni di estrema sofferenza. E una vicenda drammatica di questo genere non può essere caratterizzata da vuoti procedurali riempiti con diverse modalità a seconda dei tribunali che possono allungare i tempi di realizzazione di un tale evento.
Una buona legge che garantisca il diritto a scegliere liberamente come terminare la propria esistenza restituirebbe dignità a tutte quelle persone colpite da dolori inaccettabili e da forme di disabilità gravi e progressive. Sarebbe un legittimo esercizio di libertà individuale ed è ora che la politica ne prenda atto.