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Ci risiamo: il Tribunale di Roma ha bloccato il “trasferimento” dei migranti in Albania e subito si è riacceso l’ennesimo braccio di ferro tra politica e magistratura. Un duello ormai storico, un conflitto che si trascina da trent’anni e che galleggia su un confine sottilissimo: da un lato il rispetto delle regole, dall’altro il rischio di invadere il campo della politica. Ma qui non è solo questione di chi ha ragione e chi ha torto. C’è di più: c’è da capire chi ha il diritto di decidere in uno Stato democratico. E su questo è bene essere chiari fin da subito: il primato spetta alla politica, anche quando prende strade discutibili come quelle che il governo Meloni ha scelto di percorrere sull’immigrazione.
Perché una cosa va detta con la stessa chiarezza: questo governo cavalca la questione migranti come fosse la crisi del secolo quando in realtà i numeri del fenomeno sono decisamente contenuti rispetto ad altri paesi europei.
E che dire della famosa “soluzione albanese”? Una trovata propagandistica, nulla di più, che in nessun modo può incidere sulla realtà. È assai difficile pensare che questa trovata che riguarda poche decine di persone, possa risolvere il problema della presunta “emergenza migranti” E qui entra in gioco un aspetto fondamentale. Come evidenzia Ezra Klein, in una sua recente analisi sulla politica statunitense, spesso la percezione di emergenza e disordine così lo definisce Klein- è creata e alimentata da una narrazione politica che ignora la realtà dei fatti. Un esempio? Nonostante i crimini violenti negli Stati Uniti siano in calo, molti americani credono che il Paese sia in preda al caos, spiega Klein. Ecco, la stessa logica si applica al tema migranti: la situazione viene dipinta come insostenibile per giustificare misure drastiche ma è chiaro che si tratta di una narrazione costruita per legittimare quelle stesse misure.
E qui, esattamente contro questa narrazione, entrano in gioco le toghe, le quali si sentono legittimate a svolgere un ruolo da guardiano nei confronti di un governo che viene percepito e dipinto come eversivo, pericoloso per l'ordine costituzionale.
Il punto è che questi magistrati si vedono come custodi della Costituzione, garanti del diritto. Sono convinti – forse in buona fede – che il loro compito sia proteggere la tenuta democratica del Paese. Ma qui sorge il dubbio: è davvero questo il loro ruolo istituzionale? Forse dovrebbero limitarsi a fare ciò che prevede la loro funzione: applicare le leggi, garantire il corretto funzionamento del processo democratico, senza trasformarsi in guardiani dell'etica pubblica e del “buon governo”.
La famosa mail di Marco Patarnello, sostituto procuratore della Cassazione, che ha definito Giorgia Meloni ' un pericolo più grande di Berlusconi', è il riflesso di questa mentalità. Un pensiero che identifica il governo come un rischio e se stesso come l'ultima linea di difesa. Ma se la magistratura diventa una forza politica, che usa la legge per controllare l’operato di un governo legittimamente eletto, si crea un pericoloso corto circuito istituzionale.
Il controllo giudiziario è essenziale, nessuno lo mette in discussione, ma quando diventa interferenza costante, quando i giudici si elevano a difensori della Costituzione contro un governo solo perché non condividono le sue scelte, si rischia di compromettere l’intero sistema. La politica, con i suoi rischi e i suoi errori, ha il compito di decidere. Deve rispondere agli elettori, non ai giudici. Se ogni atto politico viene costantemente filtrato e bloccato dalla magistratura, si finisce per avere un potere giudiziario che si arroga il diritto di governare, senza essere stato eletto. E questo sì che rischia di essere eversivo. È la politica, con i suoi rischi e le sue cadute, a dover prendere le decisioni. Alla fine, saranno i cittadini a chiedere conto di quelle scelte, non i tribunali.