L’unico legame che tiene insieme la coalizione è la necessità di vincere le elezioni. Ma Meloni non si fida degli alleati

IL VERTICE DI ARCORE HA ACUITO LE DIVISIONI INTERNE INVECE DI APPIANARLE

Non è facile spiegarsi lo sfacelo del vertice del centrodestra di martedì scorso, appuntamento a lungo atteso e rinviato proprio perché l'appuntamento avrebbe dovuto siglare con certezza il recupero dei buoni rapporti all'interno della sedicente coalizione, l'avvenuto disgelo. I tre leader di FdI, Lega e Fi si erano incontrati per l'ultima volta prima della guerra del Colle, dalla quale anche solo la parvenza unitaria era uscita a brandelli. Mesi dopo quel fattaccio, in tutta evidenza non solo un incidente di percorso, i tre leader si rivedono con le migliori intenzioni ma si azzannano dopo il pranzo di Arcore.

La ricandidatura del presidente uscente della Sicilia Musumeci, fortissimamente voluta da Giorgia Meloni, accettata a bocca storia da Silvio Berlusconi, bloccata per ora da Matteo Salvini, è il casus belli ma non basta di per sé a spiegare la débacle: da ogni punto di vista e per tutti sarebbe stato possibile e conveniente mascherare la lacerazione almeno sino a quando non fossero stati esperiti tutti i tentativi di salvare la situazione in corner. Il «rinvio della decisione» reclamato da Salvini non sanciva ancora una rottura irrecuperabile nell'isola: Giorgia Meloni ha invece scelto di rovesciare il tavolo mettendo in piazza la rissa proprio mentre Berlusconi e Salvini si sbracciavano per assicurare il successo del sospirato meeting. Il caso Musumeci è un sintomo, non la malattia in sé. Per l'ennesima volta gli alleati giocano ognuno per conto proprio, come competitors molto più che come squadra e l'esito di questo approccio è sempre stato disastroso. La destra ha perso una battaglia forse decisiva, quella delle Amministrative nelle principali città italiane proprio per l'incapacità di tutti i leader, ma soprattutto di Meloni e Salvini, di anteporre l'niteresse comune a quello di partito A giustificare la mossa dirompente della leader di FdI è probabilmente un altro elemento di tensione emerso nel vertice. Giorgia non si fida degli alleati. Li sospetta pronti ad allearsi dopo il voto col Pd o con i 5S o con entrambi e chiede un impegno scritto e firmato che escluda l'eventualità. Né Salvini né Berlusconi intendono assumere un tale impegno in forma troppo costrittiva. Va bene bocciare il proporzionale, conditio sine qua non della presidente tricolore ma in fondo modello elettorale non sgradito neppure agli altri due leader dal momento che consente di fare il pieno al Senato. Però condannarsi a un matrimonio senza amore per cinque anni, magari sacrificando ghiotte occasioni alternative, è un passo che né il Cavaliere né il capitano intendono muovere. Nel vertice è emerso un motivo di dissenso in più e non secondario. Sulla guerra e sulla fornitura di armi di ogni tipo all'Ucraina Giorgia Meloni è schierata su un linea di atlantismo radicale molto più vicina a quella di Letta che non a quella di Salvini e, con toni ben più fragorosi, di Berlusconi.

In un palcoscenico politico ordinato e onesto, una coalizione del genere non avrebbe né motivo né possibilità di esistere. Ma quello italiano tutto è tranne che un quadro politico ordinato e onesto. Quando Berlusconi dice senza peli sulla lingua che solo un pazzo farebbe saltare questa coalizione perché significherebbe perdere le elezioni mette con spudorato candore le cose in chiaro: indica francamente l'unico legame che tiene insieme il centrodestra, cioè l'interesse elettorale, la necessità di vincere le elezioni. È probabile, pur se niente affatto certo, che i sondaggi siano confermati dalla realtà e che la destra esca vincitrice dalla prova elettorale. Ciò tuttavia non significa affatto che riesca poi a formare una maggioranza di governo ed è ancora più improbabile che quella eventuale maggioranza sopravviva per molto alla prova del governo. Il quadro è dunque se possibile ancora più confuso e soprattutto confondente del solito: si avvia a vincere le elezioni una coalizione che quanto a probabilità di tenuta dopo la chiusura delle urne sta messa anche peggio dei rivali Pd- M5S, che già in materia non scherzano. È' certo possibile che le cose vadano diversamente, che la destra unita non esca incoronata dalle urne oppure che, se vincente riesca in qualche modo a tenersi faticosamente insieme. Ma se così non fosse il collasso di un sistema politico- istituzionale che annaspa ormai da oltre un decennio sarebbe inevitabile.