Angoscia, nausea, tristezza. E ancora: rabbia, oppressione, disperazione. Cinque minuti in cella bastano a riempire un intero catalogo di emozioni, anche se chi entra è libero di uscire in qualunque momento. Anche se quella cella di isolamento che Il Dubbio ha riprodotto nel cuore di Roma è solo un’imitazione della realtà.

«Ma poi riaprite subito la porta, vero?», esclama qualcuno accogliendo la sfida di una “detenzione” brevissima e volontaria. A prendere parola sono i cittadini che oggi hanno popolato piazza di Pietra, in pieno centro città, per la nostra iniziativa dedicata all’emergenza penitenziaria: un evento per scuotere le coscienze dell’opinione pubblica e della politica mentre nelle nostre prigioni si allunga ogni giorno la lista di chi si toglie la vita. Una strage senza fine, quella dei suicidi in cella, un’emergenza che non fa rumore. Muta, come l’espressione di chi è rimasto per qualche minuto chiuso in uno spazio di quattro metri per due.

«È difficile spiegare cosa ho provato, non ci sono parole per questo», dice chi partecipa. Passanti, turisti, giovanissimi. Avvocati, politici, giornalisti. Un campione di umanità variegato, che si è trovato a condividere un sentimento riflesso dentro uno sguardo comune: chi ritrova la “libertà” si sente smarrito. «Di sicuro hai tempo per startene coi tuoi pensieri. Ma è impressionante la mancanza di luce, in quello spazio che sembra impossibile condividere con altre persone. Un’esperienza claustrofobica», ci racconta un ragazzo. Dentro non ha trovato nessun appiglio: la stanza è abitata da una piccola brandina, un water, un lavandino. E nient’altro, oltre a quelle scritte sul muro che raccontano la disperazione di chi ci è passato.

Come Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare da innocente. È lui ad accompagnare per mano i nostri visitatori, mostrando loro che vuol dire essere reclusi in carcere. «Qualcosa di davvero angosciante, l’idea di dover condividere con qualcuno che non conosci uno spazio del genere e la tua intimità. Mi mancava il respiro. Lì dentro tutto sembra amplificato. E le cose che sono nella tua testa sembrano riecheggiare: le senti come se fossero a tutto volume».

Soli con i propri pensieri, così si raccontano i nostri “detenuti”. Che si prestano alla finzione ma danno voce a sentimenti verissimi, come dimostra la nostra “letteratura” sul carcere, quella raccolta nelle pagine che Il Dubbio dedica ogni giorno a chi è ristretto davvero. A chi racconta del tempo che non passa mai, chiuso tra mura strette mentre il mondo di fuori fluisce indifferente. «Per prima cosa ho preso il giornale che ho trovato sulla brandina e ho cominciato a leggere: un modo per evadere subito con i pensieri», spiega una ragazza.

Persino lei, come tanti nei nostri istituti di pena, si è aggrappata a un pezzo di carta. Un libro, una rivista, una lettera: tutto ciò che ti separa dalla disperazione quando intorno trionfa il nulla. «Il vuoto, ecco, una grande sensazione di vuoto. Con questi rumori indefiniti, il canto di un uccellino, che ti ricordano che fuori c’è la vita». Ancora una volta chi passa dalla nostra cella traccia una linea. C’è il mondo di fuori, e il mondo di dentro, dietro le sbarre. Il pianeta carcere escluso allo sguardo della società, con una mandata di troppo. «Provo tanta rabbia. Questa non è giustizia, né rieducazione: troppo spesso dimentichiamo che chi è in carcere è prima di tutto una persona», tuona una cittadina. Ha lasciato la cella dopo un istante, con le mani che ancora le tremano. Non riesce a convertire in parole la sua frustrazione, eppure dice: «Ma dov’è la Costituzione in questa cella, dov’è finita l’umanità?».

Ecco la domanda che ispira l’iniziativa del Dubbio: come riportare il carcere nella Costituzione? Da tempo l’esecuzione penale ha assunto connotazioni in palese violazione dell’articolo 27 della nostra Carta, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mentre oggi, il carcere, è un luogo in cui l’umanità sprofonda. A partire dalla sua architettura, che ha un impatto diretto sulla mente di chi vive i penitenziari, come hanno spiegato i relatori intervenuti al ciclo di dibattiti che si è tenuto in contemporanea all’interno del Tempio di Adriano. «Se questa cella è realistica? Manca la puzza: c’è un odore del carcere che è del tutto particolare», spiega Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. La politica radicale racconta che un trattamento del genere è riservato ai nuovi giunti, coloro che hanno appena messo piede in carcere. «Immaginate una persona che è stata appena fermata – dice -, che magari entra per la prima volta in carcere e si trova completamente isolata dal mondo: non per cinque minuti ma per ore. Se ha problemi di tipo psicologico o di dipendenza c’è da impazzare. E infatti sono in tanti a togliersi la vita per l’impatto con l’isolamento». Cinque minuti sono solo un esperimento. Un “trucco” per guardare dentro, per una volta. Servirà a qualcosa?