È una norma di una certa età. Dice l’articolo 14 del Regio decreto 1054 del 1924 che il Consiglio di Stato “formola quei progetti di legge ed i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo”. Parole un po’ datate, ma siamo rimasti là. Quella norma è alla base del disegno di legge del governo di riforma degli appalti. Che aggiunge: “Il Consiglio di Stato può utilizzare, al fine della stesura dell’articolato normativo, magistrati di tribunale amministrativo regionale, esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’Avvocatura generale dello Stato”. Assomiglia a un appalto della funzione legislativa, senza neanche troppi limiti al subappalto. Tutto normale? Sul Sole-24 Ore del 2 luglio, in un’intervista al ministro Giovannini, qualche perplessità c’è: “Sorprende che sarà il Consiglio di Stato a scrivere i decreti attuativi”. Ma la risposta rasserena: “Quanto al Consiglio di Stato, ho già dato prova con la Commissione per le riforme costituita presso il mio ministero insieme al Dipartimento della Funzione pubblica, al Consiglio di Stato, all’Anac e alla Corte dei conti di avere grande rispetto per un lavoro fatto nella massima collaborazione tra le diverse istituzioni”. Nelle parole del ministro, il Consiglio di Stato è un’istituzione, come il Dipartimento della Funzione pubblica e l’Anac. Non pensava a un giudice. Anche perché a un giudice non si chiede di scrivere le norme che poi applica. La posizione tradizionale è nota. Il Consiglio di Stato ha competenze giudiziarie, ma anche consultive. Dà pareri su atti regolamentari e legislativi. Risponde ai quesiti di Governo, Regioni, Autorità indipendenti, Camere. Si esprime sull’attività normativa del Governo. E in sede consultiva opera in terzietà e indipendenza, nell’interesse dello Stato - comunità (e non dell’amministrazione). Le sue funzioni - consultiva e giurisdizionale - concorrono entrambe alla giustizia amministrativa. Sarà. Ma l’impressione è piuttosto che non sia ancora completato il lungo passaggio dall’essere il Consiglio del Re a diventare un organo giurisdizionale. Nel frattempo, però, il mondo è cambiato: c’è il nuovo art.111 della Costituzione e il principio del giusto processo. E poi, al di là delle funzioni del Consiglio di Stato, ci sono i Consiglieri. La loro competenza li rende da sempre destinatari di incarichi extragiudiziari conferiti dal potere esecutivo. I Consiglieri di Stato sono solo una parte della magistratura amministrativa; la quale, dunque, non è omogenea. In realtà, non ha ragion d’essere un plesso diviso tra giudici di primo e di secondo grado, se non per la diversità dei compiti. Se l’unificazione del plesso giudiziario – storia a parte - appare oggi la scelta più semplice, la diversità dei compiti è un problema. Se invece non c’è l’unificazione, la distinzione tra magistrati amministrativi non può che riflettersi all’interno dell’unitario organo di autogoverno, il Consiglio di presidenza (Cpga). È chiaro che il Cpga ha un modello: il Csm, organo di rilievo costituzionale a presidio dell’indipendenza della magistratura. Ma è un modello, lo abbiamo visto, che ha dei difetti. E che non offre risposta alle questioni specifiche della giustizia amministrativa; tra le quali - rilevante nel rapporto con il potere politico – l’esistenza di Consiglieri di Stato di nomina governativa. Vi è inoltre il rischio che un’autonomia scollegata dalla realtà renda la magistratura amministrativa autoreferenziale. Nel senso di vivere un po’ in una “bolla”, con l’idea che i ricorsi sono troppi, che bisogna sfoltirne il numero, che i carichi di lavoro sono invalicabili, che si potranno aumentare i ricorsi se e quando gli organici saranno coperti… La prospettiva da dentro la “bolla” non è però quella giusta. Non vanno disincentivati i ricorsi, esprimono una domanda di giustizia; non va avallato un sistema in cui il contributo unificato serve a impedire l’accesso al giudice. Vanno invece incrementati i giudici secondo le necessità (i giudici, più che gli aiutanti provvisori dei giudici). E vanno affrontati temi quali – appunto - la nomina governativa di un quarto dei Consiglieri di Stato; gli incarichi extragiudiziari; la coesistenza tra funzioni consultive e giurisdizionali. Una riforma coerente richiede la soppressione delle nomine governative (o il confinamento dei Consiglieri di nomina governativa alle sezioni consultive); e richiede grande cautela nel ritorno alle funzioni giurisdizionali di chi provenga da incarichi fuori ruolo. Né c’è spazio per insegnare a superare i concorsi pubblici da parte di chi ne è giudice. Serve poi una sede di incontro tra giudici amministrativi e avvocati. Il modello sono i consigli giudiziari, che mirano a coinvolgere nell’attività della magistratura i soggetti a contatto con essa (gli avvocati in primis; ed è ora al centro del dibattito il ruolo dei “laici” all’interno di tali consigli). L’esperienza concreta – va detto - è assai deludente, ma l’idea è buona. E la giustizia amministrativa, su questo, è rimasta indietro. Ha sempre avuto quale unico riferimento il Cpga (al cui interno non c’è rappresentanza dell’avvocatura). Si sono sì registrate importanti aperture: come nel processo amministrativo telematico (Pat), attuato grazie a un tavolo di confronto fra magistrati e foro. Ma sarebbe ben diverso se venisse istituito per legge presso Tar e Consiglio di Stato un organismo nel quale concorrere, con pari dignità, alla programmazione giudiziaria e alla verifica dei problemi. In conclusione. Il giudice amministrativo è il mio giudice, le critiche sono frutto di rispetto e passione. Ma questo è davvero il momento di considerare la giustizia amministrativa una risorsa per la correttezza e l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Una risorsa che però richiede di mettere mano all’esistente (magari nel quadro di un Pnrr che per ora nulla prevede). Quanto proviene dalla storia non è, solo per ciò, immutabile. *Stefano Bigolaro, Consigliere Unione nazionale avvocati amministrativisti