«E il rischio c’è. È innegabile. Se l’avvocatura, l’avvocatura giovane innanzitutto, percepisce una disattenzione, un distacco da parte di una determinata forza politica, è inevitabile che se ne possano trarre le conseguenze anche al momento di orientare il voto alle prossime elezioni». Alberto Vermiglio è da una settimana esatta il presidente dei giovani avvocati italiani, riuniti in un’associazione, l’Aiga, che ha celebrato a Foggia un congresso molto partecipato. Anche dalla politica, a voler cogliere una nota che potrebbe suonare come una beffa, dalla stessa politica che quattro giorni fa in Senato ha escluso le norme sull’equo compenso nelle prestazioni legali dal testo della Manovra. Una battuta d’arresto temporanea ma che, dice il presidente Vermiglio, 38enne professionista del Foro di Messina, «resta in ogni caso un segnale, sconcertante, di disattenzione nei confronti dell’avvocatura e del ceto medio in generale».

Cosa è scattato, presidente Vermiglio? Il timore di urtare la suscettibilità dei “committenti forti”, cioè banche, assicurazioni e grandi imprese?

Premessa: parliamo di una norma che vive attorno a un principio, quello per cui il compenso di qualsiasi professionista debba rispondere a un criterio di equità, e vorrei vedere in quale Paese in cui si affermi lo stato di diritto si possa dissentire da tale principio. Ora, dal momento che la commissione Bilancio del Senato ha escluso una simile, doverosa norma dalla Manovra senza alcuna specifica motivazione tecnica, la scelta non può spiegarsi se non sulla base di una motivazione politica.

Ci spieghi.

Se il parere di inammissibilità sull’equo compenso fosse stato argomentato, si sarebbe potuto discutere del fatto che nella legge di bilancio possano rientrare anche materie il cui impatto sulle finanze pubbliche è indiretto. Non c’è stata invece nemmeno la possibilità di controdedurre la decisione nel merito, e allora la si deve interpretare solo come un messaggio di distacco che arriva dal governo nei confronti delle professioni.

Come potrebbe esserci distacco dal mondo delle professioni in una fase di crisi persino drammatica come questa?

Il grido d’allarme lanciato dalle professioni è chiaro e si leva da anni: sembrava poter trovare una risposta nelle norme sull’equo compenso inserite in Manovra e in altri provvedimenti che possono affermare lo stesso principio per tutte le professioni. Stralciare dalla legge di bilancio le misure per noi avvocati appare come un passo indietro innanzitutto in termini di considerazione da parte della politica nei nostri confronti. E io credo che l’avvocatura debba prenderne atto e dare una risposta unitaria molto forte.

Le norme sull’equo compenso sono il frutto di un confronto aperto tra avvocatura e governo.

Si tratta di una norma importantissima al di là dei dettagli del suo contenuto perché afferma innanzitutto un principio: nessun grande committente può imbrigliare e vessare l’avvocato. La nostra istituzione ha mostrato una notevole disponibilità, per esempio riguardo al fatto che l’affermazione del principio dovesse passare, almeno per ora, attraverso una rinuncia a farlo valere non solo nei rapporti con la grande committenza ma in tutte le circostanze. Nel caso di noi giovani è doveroso affermare che al di sotto di un minimo non si possa scendere. Proprio perché si tratta di misure frutto di un venirsi incontro fra la nostra istituzione e il ministero della Giustizia, stupisce che ci sia stata una retromarcia.

Quando parla di risposta unitaria dell’avvocatura pensa anche a conseguenze sul piano delle scelte elettorali?

Il rischio è questo: che l’avvocatura ne tragga le conseguenze in vista delle prossime elezioni politiche. E non è una minaccia: noi avvocati sappiamo bene quale effetto producono le minacce. Ma si tratta di una risposta sociale. Se un cittadino, o una determinata categoria di cittadini qual è l’avvocatura, verifica un atteggiamento di distanza da parte di una certa componente politica, si guarda attorno per valutare se ci siano forze più attente alla propria condizione.

L’equo compenso è atteso soprattutto dai giovani avvocati?

Vede, è chiaro che ci sono avvocati affermati desiderosi di affrancarsi dalle clausole vessatorie imposte dalle grandi committenze. Noi giovani alle grandi committenze difficilmente ci arriviamo, ma nel nostro caso conta il fatto che lo Stato riconosca un principio, e cioè che la dignità professionale va tutelata. E questo, mi creda, è un elemento di importanza vitale, per un giovane avvocato, perché gli dà coraggio.

Gli consente di guardare con più speranza al futuro?

Appunto: vede un’inversione di tendenza. Si convince che si possa arrivare a un decoro anche negli incarichi della pubblica amministrazione. Incarichi oggi compensati in modo derisorio. Se l’avvocato verifica che di questo la politica non si rende conto, è chiaro che ne consegue un distacco, soprattutto dei giovani, da quella politica.

Il Cnf intende continuare a sollecitare Parlamento e governo affinché l’equo compenso alla fine sia approvato.

Il Cnf fa bene a spingere e l’avvocatura deve essere compatta nel farlo, in nome del principio appunto. Se non lo fa mostra di non essere autorevole. È stato segnalato come nella norma ci siano dei passaggi che possono essere rivisti: ma se non si spinge intanto per l’approvazione di un provvedimento che è a salvaguardia degli avvocati, allora si rinuncia in partenza ad affermare il principio. Se la norma è perfettibile impegnamoci poi per migliorala, ma intanto battiamoci perché si affermi un principio sacrosanto.