Agosto 2021, sono trascorsi otto anni dalla sentenza Torreggiani. Mi trovo a Rebibbia, reparto G-12 per una condanna definitiva risalente a tredici anni prima. Mi faccio prestare il metro dal detenuto MOF, l’addetto alla manutenzione che tenta invano di riparare gli scarichi della cella numero 8 in cui sono collocato da un paio di mesi. Qualcuno gli ha detto che non potrebbe cedere gli strumenti di lavoro, pena la perdita del posto, ma un caffè ben fatto vince le sue resistenze. La cella in cui sopravvivo con altre cinque persone misura circa 17 metri quadrati. Ci sono due letti a castello, uno dei quali è il mio rifugio, e due letti singoli. Sei persone che si dovrebbero muovere, vorrebbero scrivere, mangiare e respirare.

Il conto è presto fatto: al netto dello spazio occupato da letti, tavolo e armadietti, abbiamo a disposizione 1,60 mq ciascuno. Ben al di sotto di quanto previsto dalla Corte Europea per delineare i trattamenti disumani che configurano tortura. Occorrono le abilità del professionista di Tetris per riuscire a muoversi ad incastro senza scontrarsi con le altrui necessità e suscettibilità. Il “cesso” è alla turca, un buco dal quale spesso spuntano le pantegane che potrebbero mordicchiare le parti intime. Acqua calda? Nemmeno l’ombra. Non va meglio nelle uniche due docce comuni funzionanti per sessanta persone: muffa e muschio su pareti e soffitto, e trovare l’acqua calda è un terno al lotto. Ma il sovraffollamento non è solo questione di centimetri; anche gli spazi mentali vengono compressi, violati dal continuo vociare e dal volume perennemente al massimo della televisione. Ci sono evidentemente le condizioni per presentare reclamo ex. Art. 35- ter O. P. ho pensato.

Se si tenesse unicamente in considerazione il principio, non derogabile, del rispetto della dignità del detenuto, nulla si potrebbe dire se non che è mortificante, per un Paese civile, misurare la tortura a spanne. Ma non c’è mai fine al peggio: reclamo rigettato. Stando alla relazione fornita dall’Amministrazione Penitenziaria, infatti, lo spazio individuale che ho avuto a disposizione è superiore ai 3 metri quadrati. E poi i letti singoli si possono spostare ( forse in corridoio?) e quindi non sono da considerarsi ingombro, così come lo spazio sottostante agli armadietti pensili, anch’esso considerato fruibile e calpestabile. Già, spazio libero e utilizzabile. Probabilmente strisciando a terra sotto ai mobili… Basterebbe un dato per comprendere il cortocircuito: casualmente si tratta della stessa cella a cui si riferisce la sentenza di condanna della Corte EDU nel caso “Sulejmanovic c. Italia” del 6/ 11/ 2009 con la quale viene accertata per la prima volta in Italia la violazione dell’art. 3 della Convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. Il ricorso del cittadino bosniaco Izet Sulejmanovic, detenuto presso il carcere di Rebibbia in una cella di 16,20 mq con altre cinque persone. Una condizione detentiva contraria all’art. 3 della Convenzione, in uno spazio che nel corso degli anni non si è magicamente allargato. A meno che lo strumento di misura non sia l’elastico.

Agosto 2023. Le condizioni di Rebibbia Nuovo Complesso permangono preoccupanti, a confermarlo sono le recenti parole di Rita Bernardini che, con una delegazione di “Nessuno tocchi Caino”, a Ferragosto ha visitato l’istituto romano. “I numeri sono sconvolgenti: 1506 detenuti per mille posti regolamentari. Il sovraffollamento è del 150%. Tenendo presente che è un grande carcere e che ci sono zone come il 41bis dove il sovraffollamento ( purtroppo per loro) non c'è perché sono in isolamento in una cella, in alcune sezioni si arriva anche al 180%, al 200%. Poi naturalmente non ci sono gli educatori, quindi io ho il sospetto che il sabato gli psicofarmaci circolino di più degli altri giorni, perché bisogna tenere calmi questi 1.500 esseri umani intrappolati. È una situazione esplosiva, drammatica”. Analoghe condizioni nella maggior parte degli istituti di pena italiani, quelli in cui si muore per pena sfiniti dal caldo, stremati dalla mancanza di prospettive e di umanità.

Il regime aperto, che consente alle persone ristrette di muoversi lungo i corridoi delle sezioni di media sorveglianza, è una sorta di compensazione degli effetti devastanti del sovraffollamento di quei gironi infernali. La “sorveglianza dinamica”, considerata “Il mondo al contrario” dai sindacati della Polizia Penitenziaria, non è stata una concessione, ma un modo per correre ai ripari dopo che, con la sentenza Torreggiani, la Corte europea dei diritti umani ha chiaramente “invitato” il nostro Paese a porre rimedio, subito, al sovraffollamento carcerario. Chissà se si tratta dello stesso rispetto delle regole invocato dal sottosegretario alla Giustizia Ostellari secondo il quale “per prima cosa bisogna applicare le circolari che già esistono. Come quella che, negli istituti di media sicurezza vieta ai detenuti di spostarsi nei corridoi o da una cella all'altra liberamente, salvo quando si esce per svolgere altre attività. Nessun intento punitivo: va garantito il rispetto e l'incolumità di chi nelle carceri rappresenta lo Stato. Dalla polizia penitenziaria ai medici e agli educatori: tutti devono essere nelle condizioni di poter svolgere serenamente il proprio lavoro. La “sorveglianza dinamica”, introdotta in passato, è stata un fallimento”.