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C’è un punto, nella giustizia penale, in cui la pena smette di essere afflittiva e diventa disumana. Quel punto, nella vicenda di Luigi Cozzolino, 43 anni, detenuto presso la Casa di Reclusione di Sulmona e assistito dall’avvocata Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, è stato superato da tempo.
Cozzolino soffre di gravi e croniche patologie potenzialmente letali che, secondo numerose consulenze mediche e relazioni specialistiche, rendono la sua permanenza in carcere incompatibile con il diritto fondamentale alla salute. Il quadro clinico è pesantissimo: diabete mellito di tipo 1 scompensato, con crisi ipoglicemiche e iperglicemiche documentate (valori tra 62 e 547 mg/ dl), retinopatia diabetica proliferante bilaterale in rapida evoluzione verso la cecità, ipertensione arteriosa severa, polineuropatia diabetica agli arti e una sindrome depressiva maggiore con ideazione suicidaria.
Anche un medico legale incaricato, Carlo De Rosa, ha confermato l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute, indicando la necessità di un’assistenza sanitaria strutturata e continua, impossibile da garantire nell’attuale istituto.
La Casa di reclusione di Sulmona non dispone di un vero centro clinico penitenziario, ma solo di una semplice infermeria interna, priva di strutture e personale specialistico per gestire malattie così complesse. Nessuna équipe endocrinologica stabile, nessun monitoraggio specialistico, nessuna risposta adeguata alle emergenze quotidiane. Eppure, di fronte a questo quadro, la magistratura di sorveglianza ha respinto la richiesta di differimento della pena per gravi motivi di salute, sostenendo che la condizione di Cozzolino sarebbe “gestibile” in carcere. Una decisione che ignora evidenze mediche e rischia di trasformare una pena detentiva in una condanna a morte travestita da legalità.
Qui sta il nodo centrale: qualunque sia la condanna, il diritto alla salute deve prevalere. La Costituzione lo afferma chiaramente ( art. 32), la giurisprudenza lo ribadisce, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo ha sancito più volte. Nessun detenuto può essere abbandonato, soprattutto se gravemente malato: la pena deve rispettare la dignità umana e non trasformarsi in un trattamento inumano o degradante. Il ricorso in Cassazione, recentemente depositato, insiste su questo punto: negare cure adeguate significa violare in modo strutturale il diritto alla vita e alla dignità. Le motivazioni del rigetto non tengono conto delle consulenze medico- legali, ignorano l’assenza di una struttura idonea e non affrontano il problema dell’assistenza reale in un contesto privo di adeguata medicalizzazione.
Sul caso è intervenuta Nadia Di Rocco, presidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, da anni impegnata nella difesa dei diritti umani dei detenuti: «Siamo profondamente preoccupati per la vicenda di Luigi Cozzolino. Le sue condizioni sono clinicamente drammatiche e ben documentate, e nonostante ciò continua a essere trattenuto in una struttura priva dei mezzi minimi per garantirgli cure adeguate. Il diritto alla salute è inviolabile e deve prevalere su ogni altra esigenza dello Stato, compresa quella detentiva. Quando lo Stato arresta un uomo, assume su di sé il dovere di proteggerne la vita, non di ignorarla».
«Purtroppo - aggiunge Nadia Di Rocco - non è un caso isolato. Sono molti i detenuti che si trovano in condizioni analoghe e l’associazione è intervenuta più volte per ottenere differimenti di pena o trasferimenti in strutture cliniche. Alcune battaglie sono state vinte, ma molte restano ignorate. Continueremo a denunciare, a documentare e a far valere i diritti fondamentali: nessuna pena può giustificare l’abbandono di cure sanitarie idonee ed adeguate».
L’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family” ricorda che il grado di civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni delle sue carceri. La pena non può consistere in trattamenti inumani o degradanti: la Costituzione italiana non prevede la pena di morte, e negare cure adeguate significa, di fatto, reintrodurla.