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CORONAVIRUS CORONA VIRUS COVID19 COVID 19 RIVOLTA FAMILIARI DETENUTI CARCERE REBIBBIA PROTESTA PER LE FORTI LIMITAZIONI AGLI INCONTRI CON I FAMILIARI, RICHIESTA GARANZIE CONTRO IL CONTAGIO DA CORONAVIRUS E DI INTERVENTI PER RIDURRE IL SOVRAFFOLLAMENTO
Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento.
Rebibbia, 4 maggio 2025- 124° giorno di carcere. Venerdì scorso, le 9 di sera. Finito di mangiare, ci predisponiamo ai nostri soliti rituali serali di cella: la partita a carte, la scelta del film da vedere alla televisione, All’improvviso si affaccia alle sbarre della nostra cella la più arrogante di tutte le guardie carcerarie del nostro Braccio, con in mano un rotolo di sacchi da immondizia. Chiama: “Antonio Z.” e subito dopo “Preparati, domani alle 6: 30 sei trasferito. Quanti sacchi ti servono per mettere la tua roba?”.
Antonio, seduto sulla sua branda al secondo piano del letto a castello, trasecola, il suo volto assume i tratti dello sgomento. “Perché, cos’ho fatto? Dove mi portate?” domanda con voce già incrinata. “Non ti posso dire niente. Dimmi solo quanti sacchi ti servono” la risposta sprezzante dell’uomo in divisa. Antonio accenna a ribellarsi: “Non voglio essere trasferito, voglio rimanere qua”. II carceriere taglia corto: “Se non mi dici quanti sacchi ti servono, me ne vado e domani ti portiamo via senza niente”.
Intervengono i più anziani di cella, si fanno dare tre sacchi e la guardia si allontana. Antonio scoppia in lacrime tra le braccia di Ciro, il più giovane della cella, arrivato insieme a lui da un altro braccio. Io ingenuamente chiedo se è successo qualcosa, se Antonio ha fatto qualcosa di male, se ha litigato con qualcuno. I più anziani dei miei compagni di cella - Luciano, Marco, Valerio - mi rispondono che Antonio non ha fatto nulla, che questa è una consuetudine del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): quando bisogna riequilibrare la distribuzione della popolazione carceraria tra i diversi istituti di pena, si trasferiscono i detenuti che hanno creato qualche problema e, se questi non sono in numero sufficiente, se ne scelgono altri più meno a caso. Antonio è uno di questi.
Siamo stretti attorno a lui per consolarlo, poi comincia a raccogliere le sue povere cose e a metterle dentro i tre sacchi della spazzatura che gli sono stati consegnati. Un po’ di vestiti, gli oggetti dell’igiene personale, un pacco di biscotti, qualche carta, la cartella di plastica con i libri di scuola. La branda viene disfatta per riconsegnare lenzuola e coperte all'Amministrazione. Piccoli residui di un minimo habitat che ogni detenuto crea attorno a sé, tracce di un’esistenza umana messa all’angolo. Per Antonio, andarsene da Rebibbia significa abbandonare suoi amici, le sue abitudini, la sua frequenza a scuola per ottenere il diploma, la vita di cella dove un po’ di calore di ritrova negli ottimi piatti preparati da Valerio, nelle lunghe chiacchierate, nelle interminabili partite a carte.
La preoccupazione di avvertire i familiari che, ovviamente, non sanno nulla del trasferimento e non si sa come la prenderanno. Ma chi è Antonio, questo pacco postale mandato verso l’ignoto? Un ragazzone di 47 anni, nato a Isernia, 110 chili su 1,80 d’altezza, soprannominato “er bruschetta” per la sua passione per il pomodoro sopra il pane abbrustolito, mansueto e giocoso come solo certi meridionali riescono ad esserlo, sempre pronto a fare il caffè o la camomilla per tutti, la cui imprecazione abituale è “porca paletta!”. Perché è in carcere? Perché è stato scoperto a guidare senza patente durante un regime di sorveglianza a cui era sottoposto. Sullo sfondo svariati periodi di carcere, sempre per lo stesso maledetto vizio della droga e per lo spaccio necessario a finanziare questo vizio. Ma Antonio negli ultimi tempi, prima di tornare in carcere, aveva trovato lavoro in un albergo, dove era apprezzato per la sua disponibilità e la sua voglia di fare, di cui anche noi avevamo un po’ abusato nella nostra vita di cella.
Più tardi in quell’ultima serata insieme, è venuto un altro “assistente” ( il modo con cui vengono chiamati i sottufficiali della polizia penitenziaria) ad aiutarci a sostenere Antonio, quasi a scusarsi della brutalità con cui veniva trattato. Perché la stragrande maggioranza degli uomini in divisa qua dentro sono così: persone corrette e cortesi che fanno il proprio lavoro, certe volte quasi degli amici. Poi la mattina dopo, Ciro, che aveva accompagnato Antonio fino alle porte del Braccio, torna con la notizia: “Lo portano a Cassino”.
Il carcere di Cassino: uno dei più brutti e fatiscenti, teatro di una rivolta conclusa con il trasferimento di massa dei detenuti e che adesso, dopo una rapida ripulitura, doveva essere nuovamente riempito. Chi dà il diritto a quattro oscuri burocrati dell’Amministrazione centrale del Dap di disporre delle vite delle persone detenute in questo modo? Non gente che ha sbagliato e che merita una punizione, non soggetti pericolosi che per sicurezza è meglio trasferire.
Ma persone come Antonio che non hanno fatto nulla e che ora a Cassino devono, per l’ennesima volta, ricostruire tutto da zero, magari trovando un ambiente ostile? Questi sono i percorsi di rieducazione che l’Ordinamento dovrebbe garantire, secondo i principi costituzionali? Certo, il sovraffollamento delle carceri porta anche a questo: operazioni semplicistiche di redistribuzione della popolazione carceraria, basate magari su un astratto dato anagrafico di residenza. La causa principale è sempre questo maledetto sovraffollamento che la Politica non vuole vedere. Antonio la sera ha pianto, ma la mattina si è avviato alle porte del carcere con il suo solito sorrisetto strafottente. Dedico questa pagina di diario alle lacrime e al sorriso coraggioso di Antonio. Persona detenuta non pacco postale spedito in quel di Cassino.