Un video su TikTok pubblicato dai nipoti. Un detenuto al 41 bis che, durante un colloquio, dimostra di conoscerne l’esistenza. Il sospetto immediato: ha canali di comunicazione illeciti con l’esterno. La conseguenza: stop ai colloqui visivi con il figlio, anche lui detenuto. Ma la storia finisce in modo diverso da come si potrebbe immaginare. La Cassazione, con la sentenza n. 3113 depositata il 17 novembre scorso, respinge il ricorso del ministero della Giustizia e conferma il diritto di Francesco Stimoli, 64 anni, detenuto in regime di carcere duro, a vedere suo figlio faccia a faccia.

È una sentenza che segna un passaggio importante nella giurisprudenza sul 41-bis, perché ribalta un principio che fino a poco tempo fa sembrava granitico: quando si tratta di regime differenziato, la sicurezza viene sempre prima di tutto, anche degli affetti familiari. Ora la Corte dice qualcosa di diverso: l’affettività è un diritto che sta nel “nucleo essenziale” della dignità del detenuto, e può essere negato solo se ci sono ragioni concrete e dimostrate che lo giustifichino. Non basta il sospetto generico, servono fatti.

Il sospetto infondato

La vicenda parte da lontano. Stimoli, ristretto nel carcere duro, aveva chiesto di poter fare colloqui visivi con il figlio, detenuto in un altro istituto in regime di alta sicurezza. Una richiesta che in passato era sempre stata accolta. Poi, a un certo punto, tutto si blocca. Durante un colloquio con i nipoti, Stimoli fa capire di sapere che hanno pubblicato dei video sui social, dimostra di conoscere “tutti i loro gesti” e cosa accade in famiglia. Un'affermazione che fa scattare l'allarme nella Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, che esprime parere contrario ai colloqui con il figlio. Il timore è chiaro: se Stimoli sa cose che non dovrebbe sapere, forse ha trovato il modo di comunicare con l'esterno aggirando i controlli, magari proprio attraverso quei colloqui con il figlio detenuto.

Il magistrato di sorveglianza, il 7 maggio scorso, respinge la richiesta di Stimoli. Ma il detenuto non si arrende e fa reclamo. Davanti al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila spiega la sua versione: quelle informazioni sui video dei nipoti non le ha ricevute da nessun canale segreto, le ha semplicemente lette in un provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Roma che gli era stato notificato poco prima di quel colloquio. Il Tribunale verifica, controlla gli atti, e gli dà ragione. Il 17 giugno autorizza un colloquio visivo con il figlio.

A quel punto entra in scena il ministero della Giustizia, che impugna l'ordinanza davanti alla Cassazione. L'Avvocatura dello Stato sostiene che l'autorizzazione al colloquio è stata concessa senza tenere conto delle norme rigidissime che regolano il 41-bis, norme pensate proprio per evitare che i detenuti in regime differenziato possano mantenere contatti con i sodali. Quando due familiari sono entrambi detenuti, uno in 41-bis e l'altro in regime speciale, i colloqui visivi dovrebbero essere vietati per definizione, sostiene il ricorso. La semplice registrazione del colloquio non basta a neutralizzare i rischi, perché le informazioni possono passare anche attraverso la comunicazione non verbale, con gesti, sguardi, movimenti. La giurisprudenza della stessa Cassazione, del resto, aveva stabilito nel 2021 che in questi casi le esigenze di sicurezza prevalgono sempre sul diritto all'affettività.

I motivi della cassazione

Ma la Prima Sezione penale della Suprema Corte, con questa sentenza firmata dal presidente Giuseppe De Marzo e dalla relatrice Paola Masi, spiega che quel principio del 2021 è superato. C'è una giurisprudenza più recente, in particolare una sentenza di novembre 2024, che ha cambiato l'approccio. Il diritto a coltivare l'affettività familiare, anche attraverso colloqui visivi, appartiene al nucleo essenziale dei diritti del detenuto. Questo vale pure quando il familiare che si vuole incontrare è sottoposto a regime speciale. Certo, bisogna fare un bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica. Ma questo bilanciamento va fatto “in concreto”, caso per caso, e non in astratto applicando un divieto automatico.

Nel caso di Stimoli, poi, c'è un particolare che il Ministero sembra avere trascurato: il figlio non è sottoposto al 41-bis, ma solo al regime di alta sicurezza. Una condizione diversa, meno stringente. La questione della possibilità di concedere colloqui visivi tra detenuti entrambi in regime differenziato, quindi, non è nemmeno pertinente qui.

La Corte entra poi nel merito del bilanciamento fatto dal Tribunale di L’Aquila, e lo giudica corretto. I giudici di merito hanno valutato con attenzione il parere negativo della Dda di Catania, hanno esaminato l’episodio “allarmante” del video su TikTok, hanno verificato che quella conoscenza derivava da un atto giudiziario e non da canali illeciti. Hanno anche considerato che la stessa Dda, nel suo parere, riconosceva di avere “sempre rilasciato parere favorevole” ai colloqui tra padre e figlio in passato. Una volta escluso il sospetto di contatti segreti con l'esterno, non c'erano altre ragioni specifiche di pericolosità che giustificassero il diniego.

La Cassazione è molto chiara su un punto: il Ministero, nel suo ricorso, non ha indicato quali altre esigenze di sicurezza sarebbero state trascurate o mal valutate dal Tribunale. Si è limitato ad affermare, in modo generico, che gli elementi ostativi emersi dal parere della Dda erano così consistenti da giustificare il diniego. Ma quali elementi? Il ricorso non lo dice, non li descrive, non allega nemmeno il parere della Dda.

Si limita a riportare lo stesso contenuto già citato nell'ordinanza impugnata, cioè quella vicenda del video che il Tribunale aveva già esaminato e spiegato. In sostanza, secondo la Suprema Corte, il Ministero ha contestato il bilanciamento tra affettività e sicurezza senza però portare elementi concreti che dimostrassero l'esistenza di rischi reali. E questo non basta. Il diritto all’affettività familiare, anche per chi è sottoposto al regime più duro del nostro ordinamento penitenziario, non può essere negato sulla base di timori astratti o di applicazioni automatiche di divieti generali.

La sentenza si inserisce in un percorso che la giurisprudenza sta compiendo da qualche anno, sotto la spinta della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale. Un percorso che cerca di contemperare le sacrosante esigenze di sicurezza legate al contrasto della criminalità organizzata con i diritti fondamentali della persona, che non vengono cancellati dalla detenzione, nemmeno da quella più severa. Come scrive la Corte in questa sentenza, l'orientamento più recente è “maggiormente rispettoso dei diritti del detenuto, anche se sottoposto al regime di cui all'art. 41-bis”.

Certo, questo non significa che i colloqui visivi tra detenuti in regime speciale diventino un diritto automatico. La Cassazione è chiara: ogni caso va valutato, il bilanciamento tra affettività e sicurezza va fatto con attenzione, e quando le esigenze di sicurezza sono dimostrate e prevalenti, il diritto all'affettività deve cedere. Ma la chiave sta proprio qui: le esigenze di sicurezza devono essere “dimostrate”, “concrete”, “specifiche”. Non basta più dire: sono in 41-bis, quindi no. Bisogna spiegare perché, in quel caso specifico, con quella persona specifica, quel colloquio rappresenta un rischio reale per la sicurezza pubblica. Francesco Stimoli potrà vedere suo figlio. Un colloquio, per ora. Ma la portata di questa sentenza va ben oltre il caso singolo. Segna un punto fermo: anche nel regime più duro, l’affettività resta un diritto. E i diritti, per essere negati, hanno bisogno di ragioni solide, non di automatismi.