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CARCERE SAN VITTORE
Due anni dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale che ha riconosciuto il diritto all'affettività per i detenuti, l’amministrazione penitenziaria continua a frapporre ostacoli. Lo dimostrano due recenti ordinanze, entrambe di questo mese, che hanno accolto i reclami di altrettanti detenuti assistiti dall'avvocata Pina Di Credico. In entrambi i casi, le direzioni carcerarie avevano detto no. E in entrambi i casi, i magistrati di sorveglianza hanno dovuto ribadire un principio ormai consolidato: il colloquio intimo non è un privilegio, ma un diritto.
La prima storia arriva da Volterra. Un detenuto chiede a fine marzo 2025 di poter incontrare la propria compagna in un colloquio riservato, senza il controllo visivo degli agenti. Allega documenti che attestano la convivenza stabile prima dell'arresto. La Direzione della Casa di Reclusione risponde a giugno con un secco rifiuto: la convivenza non risulta provata. Il detenuto non si arrende. A ottobre, in un permesso per motivi familiari, sposa la compagna. Il matrimonio cambia tutto. Il Magistrato di Sorveglianza di Pisa, il 19 novembre, accoglie il reclamo e ordina all'amministrazione di organizzare il colloquio intimo entro trenta giorni.
Nell'ordinanza, il magistrato Rinaldo Merani scrive senza giri di parole che “la nuova circostanza rappresentata dal celebrato matrimonio risolve definitivamente ogni questione”. Non c’è più spazio per dubbi o interpretazioni: il detenuto può valersi di “un diritto acquisito” grazie all’intervento della Corte Costituzionale. La Direzione deve solo prenderne atto e organizzarsi.
La seconda vicenda è ancora più emblematica. Siamo a Larino, in provincia di Campobasso. Un altro detenuto, il primo luglio 2025, presenta istanza per colloqui intimi con la compagna. I due hanno convissuto stabilmente dal 2020 fino all'arresto, avvenuto nel luglio 2022. Dalla relazione è nato un figlio, che oggi ha quasi tre anni. La Direzione della Casa Circondariale risponde il giorno dopo con una nota che suona più come un rinvio a data da destinarsi: non ci sono strutture idonee, si sta facendo una ricognizione sul territorio, si aspettano le linee guida dal Provveditorato.
L'avvocata Di Credico presenta reclamo. Richiama la sentenza della Corte Costituzionale numero 10 del 2024, che ha dichiarato illegittimo l'articolo 18 della legge sull'ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedeva colloqui senza controllo visivo per i detenuti con il coniuge o il convivente stabile. Allega anche un precedente notiziato su queste stesse pagine de Il Dubbio del Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, che in un caso simile aveva ordinato lo svolgimento dei colloqui intimi.
Il Magistrato di Sorveglianza di Campobasso, Teresa Venezia, accoglie il reclamo l’ 11 novembre. E lo fa con un’ordinanza che non risparmia critiche all'amministrazione. «Il tempo concesso all’istituto penitenziario di Larino per la concreta attuazione della pronuncia è allo stato di quasi due anni dalla sentenza della Corte Costituzionale e di oltre quattro mesi dall'istanza», scrive il magistrato. Due anni. Eppure, al detenuto viene ancora risposto che mancano i locali. L’ordinanza entra nel merito della posizione del detenuto. È inserito nel circuito dell’alta sicurezza, ma questo non è un ostacolo: la Corte Costituzionale ha chiarito che l’espiazione di reati cosiddetti ostativi non preclude l’esercizio dell’affettività. Il suo comportamento in carcere è regolare, ha ottenuto permessi di necessità e giorni di liberazione anticipata. Non ci sono provvedimenti dell’autorità giudiziaria che vietino i contatti con la compagna. Non è sottoposto al regime del 41 bis né alla sorveglianza particolare. In pratica, non c’è alcun motivo valido per dirgli di no.
Il magistrato ricorda che la Corte Costituzionale, nella sentenza del gennaio 2024, ha chiamato «legislatore, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria, ciascuno per il proprio ambito di competenza» a dare «ordinata attuazione» alla decisione. Ha parlato di «tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena». E ha anche suggerito che l’attuazione possa avvenire «attraverso soluzioni anche temporanee, che progressivamente lascino spazio ad altre più strutturate». Tradotto: non servono stanze perfette da subito. Si possono adattare spazi esistenti, garantendo il minimo necessario: la riservatezza, l’assenza di controllo visivo da parte degli agenti.
Ma questo non è ancora accaduto. Il magistrato di Campobasso ordina alla Direzione di provvedere “con la massima urgenza” entro sessanta giorni. E chiede che l'istituto comunichi l'avvenuta esecuzione negli stessi termini.
Le due ordinanze scaturite dal reclamo portato avanti dall’avvocata Di Credito fotografano una situazione paradossale. Da una parte, c’è un diritto riconosciuto dalla Corte Costituzionale, ribadito dalla Cassazione, applicato dai magistrati di sorveglianza. Dall'altra, c’è un’amministrazione che continua a opporre resistenza. Nel caso di Volterra, la resistenza si è concretizzata nel contestare la prova della convivenza, fino a quando il matrimonio ha reso impossibile continuare a dire di no. Nel caso di Larino, la resistenza si nasconde dietro la mancanza di strutture, una giustificazione che dopo due anni suona sempre più come un'inerzia volontaria.
Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria ha emanato una circolare l' 11 aprile 2025 con le prime linee guida per provveditori, direttori e comandanti di reparto. Ma evidentemente non basta. Le ricognizioni territoriali per individuare strutture idonee procedono a rilento, quando procedono. Le direzioni continuano a rispondere con dinieghi o con vaghe promesse di future soluzioni. I magistrati, nelle loro ordinanze, non usano toni polemici ma il messaggio è chiaro. Il Magistrato di Sorveglianza di Campobasso ricorda che la Corte Costituzionale ha parlato di “attuazione ordinata”, non di attesa indefinita. Ha anche precisato che il rigetto opposto dalla Direzione di Larino “non è in alcun modo individualizzato, nulla dice sulla specifica posizione e richiesta del detenuto”. È una risposta standard, burocratica, che non considera il caso concreto. Il punto è che ogni giorno di ritardo nega un diritto. Non si tratta di un beneficio che l'amministrazione può concedere quando e come vuole.
La Corte Costituzionale ha parlato di diritto all'affettività, di necessità di garantire ai detenuti la possibilità di mantenere relazioni significative con i propri cari. Ha richiamato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che tutela il diritto alla vita privata e familiare anche per chi è in carcere. Le due storie raccontate dalle ordinanze di Pisa e Campobasso dimostrano che il percorso è ancora lungo. Servono avvocati che presentino reclami, magistrati che li accolgano, ordinanze che impongano scadenze precise all'amministrazione. E serve che i detenuti e le loro famiglie sappiano di avere questo diritto, che possano rivendicarlo senza paura. L’avvocata Di Credico, difensore in entrambi i casi, ha portato avanti le istanze con determinazione, richiamando precedenti giurisprudenziali e la sentenza della Consulta. Ha ottenuto due vittorie importanti. Ma quanti altri detenuti, in carceri sparse per l'Italia, stanno ancora aspettando una risposta? Quante altre famiglie vivono nell'incertezza, senza sapere se e quando potranno avere quel momento di intimità che la legge ormai riconosce?
La resistenza dell’amministrazione penitenziaria non è solo una questione burocratica. È la dimostrazione che cambiare la cultura del carcere richiede tempo, pressione costante, battaglie quotidiane nei tribunali di sorveglianza. La sentenza della Corte Costituzionale ha aperto una porta. Ma quella porta, due anni dopo, è ancora semichiusa per molti. E per aprirla del tutto servirà ben più di una circolare ministeriale.


