Avevamo dubbi, certo, sulle norme che tutelano la presunzione d’innocenza. Non tanto per sfiducia in quella legge, divenuta formalmente tale da quando lo scorso 14 dicembre il decreto legislativo di Marta Cartabia è entrato in vigore. A preoccupare era il rischio che il circuito mediatico-giudiziario riuscisse in un modo o nell’altro ad aggirare i divieti. Ma è una delle recenti vicende penali di maggiore risonanza a dimostrare il contrario, o almeno a segnalare come le nuove norme abbiano fatto breccia proprio fra i magistrati: ci riferiamo all’indagine di Foggia sul caporalato, che vede coinvolta l’imprenditrice Rosalba Livrerio Bisceglia e che ha avuto un pesantissimo effetto sul marito di quest’ultima, il prefetto Michele Di Bari, di fatto costretto a dimettersi da capo del dipartimento Immigrazione del Viminale. Ebbene, è l’Anm di Bari-Foggia con una nota, ad additare la stampa per il «clamore mediatico» con cui l’inchiesta è stata presentata, e per le «conseguenze negative» provocate proprio sull’importantissimo dirigente ministeriale. Proviamo a riassumere. Bisceglia è indagata con altre 15 persone dalla Procura di Foggia, ed è accusata in particolare di “intermediazione illecita” (per i presunti rapporti con due “caporali”, un gambiano e un senegalese) e “sfruttamento di manodopera” (all’interno della propria azienda agricola, tra le maggiori del Foggiano). L’imprenditrice è appunto moglie di Michele Di Bari, originario di Mattinata, sul Gargano, ex prefetto di Modena e Reggio Calabria e, fino a pochi giorni fa, dirigente al ministero dell’Interno, proprio come capo del dipartimento Immigrazione. Lo scorso 10 dicembre a carico di Bisceglia vengono ordinate, dal gip di Foggia Margherita Grippo, due misure cautelari: obbligo di dimora e contestuale obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Ma una settimana fa arriva una prima svolta: in seguito all’interrogatorio davanti alla stessa gip, la moglie del prefetto ottiene la revoca delle misure cautelari. Diversi organi di stampa segnalano come il dietrofront del Tribunale sveli ancora una volta quali terribili effetti collaterali possano discendere da conclusioni raggiunte con eccessiva precipitazione dall’autorità giudiziaria. Ad esempio, il maggiore quotidiano nazionale, il Corriere della Sera, scrive: «Tra intercettazioni “inequivocabili” e ricostruzioni “inoppugnabili” contenute in 117 pagine di ordinanza è stato procurato un danno enorme a due persone, l’una accusata di reati infamanti e l’altra praticamente costretta a dimettersi per la carica pubblica ricoperta. Quando invece, dice il difensore dell’imprenditrice, tutti i pagamenti ai braccianti sono avvenuti con bonifico e nel rispetto dei contratti di lavoro provinciale e nazionale. Domanda: ma verificare tutto questo “prima”? No?». Risponde (non solo al Corriere) innanzitutto il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro. Parla sì - con una nota ufficiale, così come prescritto dalle nuove norme sulla presunzione d’innocenza - di «quadro indiziario» che «non risulta mutato» ma che «anzi, per certi versi può ritenersi confermato». Poi però mostra di rispettare non solo la forma ma anche lo spirito della disciplina garantista appena introdotta: «Si precisa che il procedimento si trova nella fase delle indagini preliminari, che a carico di Livrerio Bisceglia sono stati raccolti indizi di colpevolezza ritenuti gravi dal gip che ha applicato la misura e che l’indagata non può essere considerata colpevole fino alla condanna definitiva». Puntiglioso ma corretto. L’Anm Bari-Foggia, come detto all’inizio, va oltre: «Alcuni giornali hanno pubblicato con titoli a effetto la notizia della revoca della misura cautelare non detentiva cui era stata sottoposta la signora Livrerio Bisceglia», premette il “sindacato” nella nota dello scorso 7 gennaio. Segue anche qui una difesa delle tesi accusatorie: «Sarebbe bene che tutti sapessero che la revoca della misura cautelare è stata disposta non perché siano venuti meno indizi di colpevolezza, ma perché il gip ha ritenuto venute meno le esigenze cautelari, cosa ben diversa e che non riguarda affatto gli elementi di accusa sino ad ora raccolti». Fino alla paradossale accusa rivolta ai media, che nel caso di Bisceglia sarebbero sostanzialmente responsabili di aver danneggiato l’immagine dell’imprenditrice e del marito, e di aver provocato le dimissioni di quest’ultimo, ben a di là, sempre secondo l’Anm locale, della risonanza data dalla magistratura all’inchiesta: «Sarebbe bene che tutti sapessero che la signora Livrerio Bisceglia non è mai stata indicata come “una specie di capo nella piramide del caporalato” e che la Procura della Repubblica, dopo l’esecuzione delle misure cautelari, non ha emesso comunicati e non ha effettuato conferenze stampa, per evitare i clamori mediatici che invece altri hanno ritenuto di creare». E ancora, si legge nella nota dell’Anm Bari-Foggia: «Sarebbe bene che tutti sapessero che, ferma la libertà di critica, i risultati di una indagine si accertano davanti ad un giudice in un palazzo di giustizia e non in trasmissioni televisive o articoli di giornale». E qui verrebbe voglia di incorniciare la frase: è la tesi che i cosiddetti garantisti affermano da decenni, dai tempi di Mani pulite, in pratica. La legge sulla presunzione d’innocenza realizza dunque il miracolo di spingere le toghe ad appropriarsi di quel discorso. Non è finita qui: «Sarebbe bene sapere che né il pm né il giudice hanno mai affermato che gli indagati nella indagine sul caporalato fossero colpevoli e che essere indagati non significa essere colpevoli». Altro passaggio da scolpire. Seguono critiche all’incompletezza dei report comparsi sui giornali, allo scarso, secondo l’Anm, «rispetto» nei confronti del pm e della gip. Fino alla lezione conclusiva: «Sarebbe bene che tutti si interroghino sul fatto che le conseguenze negative delle indagini sulla vita personale e professionale di chi ne è oggetto e di chi nelle stesse non è direttamente coinvolto possono anche dipendere dal clamore mediatico e da altre logiche che sono del tutto estranee al lavoro della magistratura». In altre parole: se il prefetto Michele Di Bari si è dimesso da capo del dipartimento Immigrazione, sostiene la sezione Bari-Foggia dell’Anm, è colpa vostra, cari giornali. Poi certo, il finale è un ritorno al quadro indiziario rimasto grave, per giudice e pm, e al relativo «comunicato della Procura», a cui, dice l’Anm, sarebbe cosa opportuna che «si dia la stessa pubblicità». Ed è chiaro, c’è anche un interesse di parte, in questa così puntuale difesa della presunzione d’innocenza che le toghe pugliesi esibiscono. Però fino a poche settimane fa, fino a prima del decreto Cartabia, in rarissime occasioni un discorso simile era stato pubblicamente sostenuto dalla magistratura. E già questo innovativo comunicato stampa dimostra che sì, qualcosa, nella cultura del sistema giudiziario, le norme sulla presunzione d’innocenza rischiano di cambiare veramente.