Intervenendo sul palco dell’evento della Corte dei Conti dedicato al sistema carcerario, il ministro della Giustizia Nordio ha rilanciato l’idea di un’alternativa al carcere per i detenuti tossicodipendenti. In realtà, qualcosa era già stato inserito nel decreto “carcere” approvato lo scorso 7 agosto, con l’istituzione di un albo delle strutture residenziali affidato al ministero. Solo che quell’elenco esiste da decenni a livello regionale, con regole chiare, professionalità consolidate e oltre trent’anni di esperienza.

E allora: di quale registro parla il ministro Nordio? Quali nuove strutture avrebbero in mente? Una sorta di rete parallela rispetto alle comunità già accreditate? Con quali criteri di selezione? Restano punti oscuri, e intanto associazioni come Antigone temono che si apra la strada a micro-carceri gestiti da privati, simili ai famigerati centri di permanenza e rimpatrio. Viene in aiuto un documento inviato, a ridosso dell’approvazione del decreto “carcere”, dal Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), che conta 240 organizzazioni associate e prende in carico ogni anno 45mila persone, tra cui anche detenuti tossicodipendenti o destinatari di una misura alternativa. Tra i vari aspetti critici, il Cnca indica l’articolo 8, intitolato “Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”, il quale stabilisce che il ministero della Giustizia curi un elenco delle strutture idonee ad accogliere e a favorire il rientro in società delle persone detenute. Lo scopo dichiarato è di semplificare l’accesso alle misure penali di comunità e di rendere più efficace il reinserimento degli adulti ristretti. Le strutture incluse in questo registro dovrebbero offrire assistenza, percorsi di riqualificazione professionale e opportunità di reinserimento sociolavorativo, anche per chi convive con dipendenze o disturbi psichici, a patto che non richiedano un ambiente di riabilitazione sanitario-specialistico.

Qui nasce il primo dubbio del Cnca: quali strutture entrano in gioco? Per chi soffre di dipendenza o di problemi di salute mentale, esistono già servizi del Servizio sanitario nazionale e, quando gestiti da enti privati, comunità accreditate che rispettano requisiti tecnici e di personale fissati dalle regioni. La vera domanda è dunque questa: le “strutture” del decreto si sovrappongono alla rete attuale o ne rappresentano un’alternativa? Se si punta a un sistema parallelo, fuori dai processi di accreditamento, si metterebbe a rischio l’attuale equilibrio pubblico-privato, che assicura interventi socio-sanitari specialistici. Nella peggiore delle ipotesi, si troverebbe spazio per poli con numeri di ospiti più alti, fuori dal controllo regionale e gestiti da privati, senza certezze su obiettivi né metodi di custodia. Il timore è appunto di ritrovarsi di fronte a una riedizione dei Centri di permanenza per il rimpatrio, estesa a tutti i detenuti. In altre parole, si sta davvero aprendo la porta a micro-carceri private?

La proposta delle comunità

In realtà, partendo proprio dalle esperienze delle comunità già esistenti, la soluzione più pragmatica è implementare il sistema di servizi già esistente, alleggerire la burocrazia e velocizzare le pratiche dei magistrati di sorveglianza. Ma non solo. Vale la pena riprendere proprio il documento del Coordinamento nazionale delle comunità accoglienti inviato lo scorso anno al Guardasigilli, il quale traccia una road map in tre direttrici per facilitare l’accoglienza dei detenuti tossicodipendenti. Il primo passo è limitare i nuovi ingressi in carcere, riconoscendo che molte tensioni sociali – dalle sostanze stupefacenti ai rave party, dagli “eco vandali” ai reati minori – finiscono per scaricarsi nel penale. Il Cnca chiede una revisione delle norme sulle droghe e una stretta sugli allarmi sociali usati a fini propagandistici, troppo spesso tradotti in nuovi reati o in inasprimenti di pena. Così si alleggerirebbe il sistema giudiziario e si eviterebbe l’effetto diseducativo di sanzioni sproporzionate. Su questa linea, il Coordinamento spinge per forme di giustizia riparativa di comunità e per potenziare misure alternative – messa alla prova, lavori di pubblica utilità – con priorità per le persone più fragili.

Per snellire l’emergenza, il Cnca propone un indulto condizionato in appello all’articolo 79 della Costituzione e l'utilizzo degli housing sociali gestiti dalla rete. Le “Case Territoriali di Reinserimento Sociale” (disegnate dalla proposta di legge Camera 1064) diventerebbero nodi chiave per programmi di reinserimento lavorativo e formativo, oltre che spazi di giustizia riparativa.

Il ruolo del terzo settore

Con oltre quarant’anni di esperienza, il Cnca ha chiesto la semplificazione delle procedure – in particolare per chi è in attesa di giudizio – e fondi adeguati per i percorsi socio-lavorativi abbinati alle cure. Serve una norma che sciolga il nodo dei migranti senza permesso, permettendo anche a loro di seguire un percorso di pena e cura. I principi che sostengono il lavoro delle comunità accreditate si fondano innanzitutto sulla volontarietà: ogni percorso di cura nasce da una libera scelta, validata dalla certificazione del SerD. Chi accede a una misura alternativa mantiene gli stessi diritti di chi vive fuori dal circuito penitenziario e trova un progetto costruito sul proprio profilo, grazie a una fase preliminare di osservazione condivisa fra servizi e comunità. La residenzialità, pensata per durare fino a 36 mesi, può concludersi in anticipo e lasciare spazio a un affidamento territoriale, mentre chi non ha una dimora stabile ottiene una residenza “fittizia” che garantisce l’accesso al medico di base, a tirocini e opportunità di lavoro. È chiaro poi che le comunità non svolgono funzioni detentive: il loro staff si dedica esclusivamente alla cura e al supporto, mentre eventuali percorsi di giustizia riparativa restano volontari, gestiti da operatori esterni. In ogni fase, la rete territoriale – dai servizi sanitari agli enti del terzo settore – assicura un coordinamento continuo. Infine, spetta a ciascuna comunità decidere quanti posti riservare ai detenuti, calibrando così la propria offerta sulle esigenze del territorio.

Quindi, apertura alle intenzioni sicuramente positive del ministro della Giustizia, ma nel contempo – come ha scritto Antigone nel suo ultimo rapporto – un’attenzione a non creare un modello di privatizzazione dell’esecuzione penale. Se è del tutto condivisibile la previsione di un sostegno economico a soggetti privati che accolgano persone in esecuzione penale fornendo loro un alloggio, ben diverso è l’affidamento a tali soggetti del compito del reinserimento sociale.