«Sulla legittima difesa si è espresso il presidente dell’Anm Francesco Minisci, e ho condiviso in pieno il ragionamento che ha proposto nell’ultima riunione del nostro comitato direttivo. Voglio però soffermarmi su un’altra questione: il senso di paura diffuso tra i cittadini, in particolar modo per la sfiducia nella capacità dello Stato di reprimere alcuni reati. La risposta non certo è in soluzioni normative inappropriate, ma in correttivi che restituiscano credibilità allo Stato nel reprimere determinate forme di delinquenza». Antonio Sangermano è tra i magistrati che, del direttivo Anm, sono componenti. Dell’Associazione è stato vicepresidente e vi rappresenta la stessa corrente, Unicost, di cui fa parte Minisci. È forse il primo esponente della magistratura associata a mettere a fuoco il corto circuito innescatosi prima con la sfiducia della politica nei giudici, che ha favorito l’introduzione di norme, secondo Sangermano, deboli in certi ambiti del penale, e da lì quell’ «ansia diffusa nella società», a cui «non si può dare risposta con gli strumenti normativi impropri, semplificatori», ma che «va comunque ascoltata». Con una precisazione: «Va ritrovato un dialogo basato sulla fiducia che veda magistratura e avvocatura convergere su una visione comune, in modo da proporre alla politica soluzioni costituzionalmente orientate».

Il governo ha appena varato le norme sui migranti, che a breve dovrebbero approdare in Parlamento, e all’esame del Senato ci sono già la proposte sulla legittima difesa, appunto: perché siete critici su queste ultime?

Il presidente Minisci lo ha spiegato con garbo e competenza: si intende precludere lo spazio di valutazione del giudice, attraverso qualche improprio algoritmo giuridico.

Se qualcuno spara per difendersi, un’indagine andrà pur sempre fatta, è così?

Il magistrato deve sempre valutare se sussiste il valore costituzionale della proporzionalità fra offesa e difesa, se vi sia effettivamente stata, in chi si è difeso, la consapevolezza che un delinquente era entrato nel proprio domicilio o esercizio per privarlo dei suoi beni.

Non la convincono neppure modifiche che escludano l’eccesso colposo per chi valuta erroneamente la minaccia in virtù di circostanze che lo turbino sul piano psichico?

Già nel 2006 il Parlamento ha modificato l’articolo 52 per precisare meglio il principio di proporzionalità per le aggressioni subite nel proprio domicilio o negozio. Nell’alveo della norma in quel modo ridefinita sono già ricomprese tutte quelle potenziali interpretazioni che si mira ora a introdurre. Proprio per questo, l’unico effetto di tali ulteriori modifiche sarebbe quello di esautorare lo spazio di valutazione discrezionale dei magistrati. E sa perché si prova a far questo?

Perché?

Negli ultimi vent’anni la politica, nei confronti di noi magistrati, ha sviluppato una sfiducia, e il timore che avremmo usato gli strumenti della repressione penale solo per colpire la politica stessa: perciò ha indebolito quegli strumenti. Ne sono venute conseguenze molto negative nella repressione di alcuni reati. Si è diffusa una forte insicurezza tra i cittadini, a cui ora si vorrebbe rispondere con soluzioni normative spesso opposte alle precedenti ma formulate in modo inadeguato dal punto di vista tecnico.

Le statistiche dicono che i reati sono in calo.

Nella società è molto avvertita un’istanza di difesa sociale che non può essere liquidata con l’opposizione sbrigativa di rilievi statistici. Ribadisco la premessa di questa mia personale analisi: con proposte come quelle sulla legittima difesa la politica mette in scena una proiezione semplificatoria di esigenze che però sono reali; e queste esigenze reali emergono a causa del fatto che il principio di effettività della pena è percepito come friabile, e che il susseguirsi di alcune riforme ha fiaccato l’attitudine repressiva dello Stato.

A quali riforme si riferisce?

Al combinato disposto di due elementi, per esempio. Da una parte la riforma della custodia cautelare, specificamente per la parte che introduce una presunzione di adeguatezza dei domiciliari accompagnati dal braccialetto elettronico. Così come ha avuto effetti negativi l’innalzamento della soglia minima edittale per l’applicazione della misura cautelare inframuraria. L’altro elemento è la trasformazione del piccolo spaccio di droga da circostanza attenuante a fattispecie autonoma: in virtù di questa modifica non è più consentita la custodia in carcere per il microspaccio quotidiano e diffuso. Ne deriva una percezione di insicurezza che non può essere minimizzata. Ora la politica prova a rispondere a questa, ma con strumenti impropri.

In che senso?

Asseconda, per esempio, la distorsione secondo cui ‘ visto che lo Stato non mi difende, voglio gli strumenti per difendermi da solo’. È una deriva: a quel diffuso senso di insicurezza, di sfiducia verso l’effettiva deterrenza della pena, si risponde con modifiche normative che impediscano a un piccolo spacciatore individuato a Prato di farsi beffe del divieto di dimora andando semplicemente a spacciare il giorno dopo a Calenzano. Al combinato disposto di cui sopra si aggiungano l’indulto e i cosidetti svuotacarceri. Ecco, da questo credo che l’Anm non possa prescindere: accanto alle giuste critiche sulla legittima difesa, vedo il dovere di focalizzare le istanze di difesa sociale da cui nascono alcuni progetti di legge inidonei.

Ma applicare in modo più ampio la custodia in carcere non è incompatibile con la condizione dei nostri istituti e il fine rieducativo della pena?

Credo che quest’ultimo non si realizzi solo con le misure alternative, ma per una profonda umanizzazione del carcere, a cominciare dalla socialità affettiva per i detenuti, dal multilinguismo dei mediatori, da ambienti sani. Il carcere deve rimanere una extrema ratio e diventare nello stesso tempo un luogo umano. Così come credo che alcune modifiche sbagliate del passato, come quelle sulla custodia cautelare, derivino da una sfiducia nei confronti della magistratura da parte della politica, con la seconda che sottrae strumenti alla prima nel timore di vederli usati contro se stessa.

E quale potrebbe essere il rimedio?

Vede, ci si deve sempre ricordare che la Costituzione è un perimetro valoriale, un insieme non solo di regole ma di principi, inderogabili per chiunque: eppure in tale perimetro, l’attività di indirizzo politico di chi vince le elezioni deve, senz’altro, potersi esprimere. Il punto è che se la politica opta per modelli tecnici impropri, magistratura e avvocatura insieme possono aiutare la politica a ritrovare uno schema costituzionalmente idoneo. Ma ci sono due precondizioni da rispettare. Dopo vent’anni di conflitto sulla giustizia, va trovato un dialogo costruttivo fra magistratura e politica. L’altro fattore utile è che tale confronto veda magistratura e avvocatura schierate l’una di fianco all’altra nel perseguimento di obiettivi comuni. Penso all’abolizione del divieto di reformatio in peius: su simili riforme sarebbe sempre opportuno il confronto con gli avvocati, in particolare con il Cnf. Un confronto che sia strutturato e permanente, in cui magari si accantonano temi di parte come la separazione delle carriere, in modo che avvocati e Anm propongano alla politica, nel dialogo, soluzioni di riforma che stiano dentro la Costituzione.