Violazione dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo per l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione: è quanto riscontrato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza 55064 del 28 ottobre, nella quale viene evidenziato che i criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione attribuiscono un peso sproporzionato alla forma a scapito della sostanza.

L’Italia dovrà dunque risarcire con 9.600 euro il ricorrente per danno morale, più qualsiasi imposta che potrebbe essere dovuta su tale somma. A ricorrere alla Cedu il dirigente di un'impresa commerciale di Catania cui era stato notificato un avviso di sfratto. L’uomo ha impugnato per Cassazione, a marzo 2010, la sentenza d’Appello che confermava il decreto ingiuntivo di sgombero, esponendo una sintesi dell'oggetto e dello svolgimento del procedimento. Nel suo ricorso, lungo circa 50 pagine, erano stati evidenziati i motivi di ricorso e le motivazioni della sentenza impugnata, parti del procedimento e degli atti citati sono stati parzialmente trascritti o riassunti con l’indicazione della numerazione degli atti processuali. La Cassazione ha però dichiarato il ricorso inammissibile. Da qui il ricorso alla Cedu, davanti al quale il dirigente ha lamentato un'applicazione eccessivamente formalistica delle norme sulla formazione dei ricorsi. In particolare, il ricorrente ha evidenziato che il principio d'autosufficienza, ovvero l’esigenza che il ricorso contenga in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la Cassazione della sentenza di merito senza la necessità rinviare a fonti esterne, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente all’epoca dei fatti. Il governo ha ammesso l'origine giurisprudenziale di questo principio, evidenziando come la Cassazione abbia dovuto chiarirne l'applicazione con sentenze delle Sezioni Unite. Un’esigenza di chiarimento che sta anche alla base di un protocollo datato 2015, la cui sottoscrizione da parte del Cnf «avrebbe cercato di arginare l'approccio eccessivamente formalista della Corte di Cassazione».

Secondo i giudici di Strasburgo, «se il carico di lavoro della Corte di Cassazione descritto dal governo rischia di porre difficoltà all'ordinario funzionamento del trattamento dei ricorsi», resta il fatto che l'accesso alla giustizia non possa essere limitato «con un'interpretazione eccessivamente formalistica», al punto «da violare tale diritto nella sua stessa sostanza». Insomma, questa facoltà deve essere concreta e non solo teorica. E per garantire ciò, le norme che limitano il potere di impugnazione devono essere chiare e prevedibili agli occhi del ricorrente. Secondo la Cedu, invece, la Cassazione ha dimostrato un eccessivo formalismo non giustificabile rispetto alla specifica finalità del principio dell'autonomia e quindi della finalità perseguita, ossia la garanzia della certezza del diritto e della corretta amministrazione della giustizia. Per il Palazzaccio, infatti, il ricorrente non aveva indicato, per ciascun motivo, le ipotesi di ricorso. Ma secondo i giudici di Strasburgo, dalla lettura dello stesso emerge con chiarezza l'oggetto e l'andamento della controversia dinanzi ai giudici di merito, nonché la portata dei mezzi, sia nella loro base giuridica che nel loro contenuto, con l'ausilio di rinvii ai passaggi della sentenza della Corte d'appello e ai relativi atti citati nel secondo grado di giudizio. I criteri previsti dall’articolo 360 del codice di procedura civile, dunque, erano stati sufficientemente rispettati.

La sentenza, però, non riguardava il solo caso del dirigente catanese.  Strasburgo aveva infatti  rilevato che la valutazione della legittimità dello scopo perseguito dall'applicazione del principio di autonomia del ricorso per Cassazione si prestava ad un trattamento unitario per tre diversi ricorsi, per un totale di otto ricorrenti. Lo scopo di tale principio, come evidenziato dal governo, era quello di facilitare la comprensione della causa e delle questioni sollevate in appello e per consentire alla Corte di Cassazione di pronunciarsi senza dover ricorrere ad altri documenti, in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione che consiste nel garantire «l'applicazione uniforme e la corretta interpretazione del diritto interno». Negli altri due ricorsi, però, i giudici non hanno ravvisato la violazione come nel caso del dirigente catanese: in un caso, infatti, «l'indicazione degli atti del giudizio nel merito era irregolare poiché, per ogni passaggio citato, mancava il rinvio agli atti originari richiesti dalla giurisprudenza interna», nell'altro l'avvocato dei ricorrenti «si è limitato a trascrivere gran parte dell'esposizione dei fatti della sentenza della Corte d'appello, le conclusioni dei ricorrenti in appello, parte dell'impugnazione», come motivazione e dispositivo della sentenza della corte d'appello.