Patrizia Corona, vicepresidente del Consiglio Nazionale Forense, aderisce all'appello del Dubbio per fermare la strage dei suicidi in carcere. E spiega perché l’avvocatura ha il dovere sociale di ricordare sempre e a tutti che l’umanità è un diritto anche in carcere. Caro Direttore, con convinzione e piena condivisione firmo l’appello del Dubbio che sensibilizza l’opinione pubblica sull’allarmante numero dei suicidi nelle carceri italiane e la proposta di interventi immediati per fermare questa inaccettabile strage. Non è inutile ricordare che, come scriveva Voltaire, il carcere è la dimensione della civiltà di uno Stato. E nella costruzione di questa migliore civiltà all’Avvocatura compete un ruolo primario, che va oltre la difesa dei diritti dei singoli, e che più ampiamente ricomprende la difesa della legalità e della giustizia nell’ambito di una responsabilità sociale che ci impone doveri verso la collettività. Responsabilità e doveri che ci derivano dall’ essere portavoci dei diritti e per questo conoscitori diretti di tante situazioni di disagio e allarme sociale quali, a mero esempio, le violenze di genere, le devianze minorili, la tutela dei richiedenti asilo, lo sfruttamento dei lavoratori e anche la condizione di vita di chi è arrestato o condannato al carcere; situazioni tutte rispetto alle quali abbiamo quindi un punto di osservazione e di analisi privilegiato. Chi meglio degli Avvocati che frequentano quotidianamente i penitenziari e le case circondariali del nostro Paese può rendere testimonianza e alzare il velo sulla vita di quella realtà estrema, nascosta agli occhi della società e ripiegata su se stessa? Noi non solo sappiamo, ma tocchiamo con mano la sofferenza data dalla privazione del bene della libertà, seppur socialmente inflitta a rimedio di un crimine e a saldo di un debito verso la giustizia, dei nostri assistiti e vediamo come a questa sofferenza spesso si sommino tante ulteriori piccole o grandi afflizioni, non legalmente dovute e rispetto alle quali il detenuto è quasi sempre privo di tutela. E qui penso a taluni atti dell’amministrazione penitenziaria e alle condizioni di vivibilità di tante case circondariali che gli avvocati penalisti ben conoscono quando si occupano della fase di esecuzione della pena avanti il Tribunale di Sorveglianza dove, facendoci interlocutori del mondo chiuso dietro le sbarre, ci adoperiamo perché il tempo in carcere dei nostri assistiti non trascorra senza diritti. Diritti e sofferenze che non sono quasi mai individuali. Famiglie e amici vengono travolti da quell’accidente violento che è l’ingresso in carcere di una persona cara e sono pieni di domande a cui ogni avvocato prova a rispondere, cercando le parole per spiegare il senso di quel che sta succedendo a chi non ha colpa, ma ne patisce le conseguenze e ne viene risucchiato. L’impatto traumatico con questo mondo e questa realtà troppo spesso porta alla morte. I dati sui suicidi – quasi ottanta in questo 2022 – confermano infatti il dramma statistico che a mettere fine alla propria vita sono principalmente i detenuti appena entrati o quelli in attesa di liberazione. Altamente significativo è altresì annotare come l’Italia sia il paese europeo con il tasso di suicidi più basso fra le persone libere e come tale dato aumenti di ben 16 volte nelle sue carceri. Quali i rimedi? Portare a 75 i giorni di liberazione anticipata a semestre e avviare i percorsi di giustizia riparativa sono solo due piccoli segnali concreti: il primo per onorare il patto di correttezza tra amministrazione e detenuto, il secondo per far trovare pace e dare risposte di giustizia anche alle vittime dei reati, spesso dimenticate come parte processuale. Poi piccole risposte, ovvie nella loro semplicità, per dare speranza a chi sta scontando una pena, breve o lunga che sia, come concedere il diritto a una telefonata al giorno ai propri cari e la creazione di spazi per gli incontri con le famiglie e gli amici, congiunti che troppo spesso sono frustrati per l’ impiego di tempo e fatica nel confronto con un sistema che sembra costruito apposta per tenerli fuori. L’aumento di personale per la salute psicofisica è poi una necessità impellente e urgente. L’elenco degli interventi da proporre sarebbe lungo e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha assicurato nell’incontro avuto con la Presidente del CNF, che il carcere sarà una priorità del suo mandato. Nell’attesa fiduciosa di verificarlo, l’avvocatura ha il dovere sociale di ricordare sempre e a tutti che l’umanità è un diritto anche in carcere e che uno stato democratico deve permettere di conservarla a chi vi entra per ripagare il suo debito nei confronti della collettività e vi dovrebbe uscire con la speranza di nuove e rinnovate prospettive di vita. Il fine verso il quale condurre le future riforme è infatti sempre lo stesso: il principio costituzionale rieducativo della pena che oggi è in gran parte inattuato. Sono infatti intimamente certa che noi avvocati, nel difendere i diritti di chi sconta una pena, difendiamo anche il diritto di tutti a vivere una società più giusta e più sicura. Ciò in quanto solo il recupero e il reinserimento sociale di chi ha sbagliato può rompere quella spirale che troppo frequentemente fa del carcere non un luogo di sola pena, ma di quotidiana umiliazione che in troppi casi estremi porta al suicidio e che quasi sempre alimenta, anziché spezzarla, la diffusione della capacità a delinquere.