di Emilio Sirianni*

Gentile direttore, poche settimane fa mi sono addormentato leprotto (copyright Charles M. Schulz) e mi sono svegliato “falco”, “duro e puro”, addirittura “leader” di Magistratura Democratica ( A. Sallusti – L. Palamara, “Lobby & Logge, Mondadori 2022, pg. 99 e segg.). Mentre i miei compagni di corrente ancora si sbellicano, provo a spiegare il deformante, fantastico mondo di Palamara e Sallusti, con un esempio. I due, nell’ultima loro fatica letteraria, descrivono la magistratura italiana, anzi l’Italia tout court, come percorsa dal sempiterno scontro di due lobby/ logge della magistratura, che tutto decidono (dalle leggi approvate in Parlamento, alle nomine dei giudici costituzionali fino ovviamente alle sentenze pronunciate nei tribunali): quella dei giudici conservatori e quella, largamente dominante, dei giudici che “fanno i rivoluzionari ma sono parte fondamentale del Sistema”. Io, naturalmente, farei parte della seconda che avrebbe la sua incarnazione associativa in Md e costituirebbe l’invincibile falange del giustizialismo, dedito all’eliminazione, per via giudiziaria, dei nemici politici. Il grottesco di questa rappresentazione forse si può cogliere dalla lettura di questo stralcio del mio intervento al congresso nazionale di Md dello scorso mese di luglio, che ritengo attuale nei giorni in cui si “celebra l’anniversario di mani pulite”. «Sciascia inizia uno dei suoi scritti più belli e divisivi, quello sull’affaire Moro, con un’immagine potente: la visione, in una passeggiata serale, di una lucciola nella crepa di un muro, quando ormai si era convinto che le lucciole fossero definitivamente estinte. Utilizza quell’immagine per evocare l’amato Pasolini e la sua inesausta opposizione al regime democristiano che aveva deturpato il volto del paese, dicendo che il poeta “voleva processare il Palazzo in nome delle lucciole”. Ha dapprima l’impressione che sia una fenditura, uno “schisto”, nel muro e solo dopo si accorge che è una lucciola e parte da quella lucciola per aprire, con le sue domande, crepe profonde nel muro compatto della verità ufficiale e mettere a nudo miserie, ipocrisie ed opacità delle Istituzioni, dei Partiti e dei media nei giorni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro. Domande divisive, ma che ancora oggi interrogano la coscienza collettiva del paese. Forse erano questo allora le lucciole per il grande intellettuale siciliano: domande, domande scomode, ma necessarie. Md ha smesso di porsi domande scomode 30 anni fa, al tempo delle stragi di Capaci e Via d’Amelio e di Mani Pulite. Prevalse doverosamente, l’esigenza di non dividersi davanti all’orrore e sotto la pressione crescente del potere politico ed economico, di fronte ai reiterati tentativi di sbarazzarsi dell’indipendenza della magistratura. Non erano tempi per schisti nel muro compatto della magistratura. E così, impercettibilmente, abbiamo iniziato ad allontanarci dai luoghi ideali in cui si perpetuava il conflitto fra il potere ed i senza potere ed a recidere i legami con i soggetti collettivi, spesso diversi da quelli di un tempo, che agivano quel conflitto. Da quei luoghi in cui donne e uomini si battevano per difendere i diritti del lavoro, dell’ambiente e del territorio, il diritto a non patire discriminazioni per ragioni di religione e origine etnica, di genere e di identità di genere. Ci allontanammo dai mille luoghi in cui era negato il diritto di avere diritti, anche quando ubicati all’interno dei palazzi di giustizia. Occorre far sì che tornino le lucciole e sembra stia già accadendo. Ritornare a fare domande divisive, partendo proprio da quelle che non facemmo all’inizio di questo trentennio, oggi non più eludibili, sul lato oscuro dell’epopea di Mani Pulite (ché nessuna vicenda storica è fatta di sola luce). Quando tacemmo sul tragico sostanzialismo che voleva cessati i pericoli d’inquinamento probatorio e aperte le porte delle carceri solo dopo ampia confessione di indagati in vinculis. Quando assistemmo, forse a disagio, ma rigorosamente muti, alla celeberrima conferenza stampa dei pm dai volti tirati e barbe incolte che sbarrò sì la strada ad un atto legislativo incostituzionale, ma la aprì a quella commistione di legittimazioni che adesso ci presenta un conto salato. Adesso che a reclamare legittimazione, non più in virtù di sapere tecnico, imparzialità e indipendenza, ma del consenso platealmente sollecitato, non è solo qualche protagonista di quelle lontane vicende ormai avviato lungo un triste viale del tramonto, ma anche una folta schiera di epigoni in tredicesima. Alfieri del populismo giudiziario che dilaga». Siamo alla vigilia di importanti referendum, mi auguro se ne possa parlare liberi da fantasiosi schieramenti, evocati per mere ragioni di personale interesse. (*presidente sezione lavoro Corte d'Appello di Catanzaro)