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Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento penitenziario.
Rebibbia, 14 settembre 2025
257° giorno di carcere
Pacche sulle spalle, battute al vetriolo, litigi goliardici per una partita di calcio o di tennis, cazzeggio continuo: la vita delle persone detenute non è improntata alla tristezza, ma a una rozza e virile sfida alle avversità della vita e alle difficoltà carcerarie.
Non tutti: ci sono anche i “morti viventi”, quelli che hanno gettato la spugna e vivono in uno stato quasi vegetativo, buttati sulle brande o seduti davanti alle loro celle. Parlano a stento, se non per qualche vago lamento, sono passivi e inespressivi.
Ma la maggioranza ride e scherza, a volte fanno i duri e i menefreghisti, per dimostrare, innanzitutto a sé stessi, di essere più forti di ogni dolore. Io mi sono adeguato, e quando, insieme a Fabio Falbo, non siamo impegnati a dare risposte sui problemi politici, sociali e legali della vita carceraria, ci divertiamo con la maggioranza sfrontata, scambiando sorrisi sornioni, pacche sulle spalle, battute e frasi di incoraggiamento. Come se fossimo parte di una squadra che sta affrontando una dura prova e i cui componenti si incoraggiano a vicenda.
C’è però qualcosa che, anche dopo otto mesi di cella, mi colpisce allo stomaco e mi piega nella commozione, una luce che nessuno può vedere, se non entra qua dentro: il rapporto delle persone detenute con i loro familiari e in particolare con i loro figli.
Vi ricordate la stucchevole retorica dei “gessetti colorati”? Quella che voleva adulti e bambini disegnare insieme con questi gessetti colorati nelle piazze italiane e attribuiva a questo rito artistico meravigliosi poteri salvifici per tutta l’umanità? Uno dei tanti modi “buonisti” per esorcizzare le sfide della vita individuale e sociale, per far dimenticare i conflitti in cui bisogna combattere ogni giorno.
Beh, anche il carcere ha i suoi “gessetti colorati”, anche se meno retorici: sono mazzi di matite di tanti colori che i padri detenuti, non so come, riescono a raccogliere, custodiscono gelosamente e si scambiano tra di loro. Anch’io ho uno di questi tesori – un enorme astuccio nero con un’ottantina di matite di ogni tipo – che mi è stato lasciato da Valerio, mio ex-compagno di cella proveniente da Ostia e padre di una bella bambina, quando finalmente è riuscito a uscire dal carcere. Non potendolo condividere con mio figlio Manfredi, che ha trent’anni, questo tesoro colorato lo uso per sottolineare i libri di politica che sto leggendo, ovviamente in attesa di poterlo trasmettere a qualcun altro quando arriverò a fine pena.
A cosa servono, insomma, questi mazzi di matite? A far giocare i figli più piccoli quando i padri li incontrano nelle ore d’aria. Questi padri detenuti si attrezzano minuziosamente, con fogli di carta, le matite colorate, qualche pallone, altri semplici giochi, per tentare di far vivere spensieratamente ai loro figli quel poco di tempo che passano insieme. Strumenti semplici e disperati per recuperare un poco di paternità e di rapporto con i propri bimbi e i propri ragazzi.
E li vedi aggirarsi per l’“area verde” (lo spazio aperto a lato della Chiesa centrale, in cui si svolgono la maggioranza dei colloqui) questi padri detenuti, che spesso sono degli omoni tatuati, che corrono, giocano, strillano, con i loro figli sulle spalle, presi per mano, inseguiti e abbracciati. Bimbetti stupiti, bambine bionde, ma anche ragazzi chiaramente provati dalla tristezza e dalla noia della situazione che stanno vivendo. E i loro genitori che cercano in ogni modo di distrarli e di coinvolgerli.
Quando vedo tutto questo, allora – lo confesso – sento un pugno sullo stomaco e mi commuovo di fronte a questo disperato tentativo di essere una famiglia, di essere padri, nonostante le sbarre e la separazione.
E questo vale anche per le mogli, le ragazze, i fratelli, le sorelle e i genitori che vengono a trovare le persone detenute. Con le giovani mogli e le ragazze prevalgono le effusioni, con genitori e fratelli le lunghe chiacchierate, spesso cercando argomenti sempre nuovi per alimentarle. E le madri incerte e con gli occhi lucenti, che guardano con amore i loro figli scapestrati o sfortunati.
Se per i bimbi prevale la preoccupazione di trovare il modo di farli giocare, per gli altri parenti i miei colleghi si concentrano nelle colazioni da mangiare insieme. Già dai giorni precedenti fervono i preparativi, si ordinano i dolci o le pizze (abbiamo qui al G8 un’ottima pizzeria gestita da persone detenute, coordinate dall’ottimo Luca, un vecchio militante del Fronte della Gioventù di Latina), si prepara l’immancabile caffè.
Poi, nei giorni prestabiliti, a prima mattina si leggono gli elenchi dei colloqui appesi in bacheca e, se si trova il proprio nome, si fa la barba, la doccia e ci si veste con i vestiti migliori. E poi, quando si viene chiamati, spesso con ritardi di ore, si va veloci, visibilmente emozionati, verso i cancelli dell’area verde.
Perché, vedete, quando una persona viene reclusa, a pagare il prezzo non è solo lui, ma è tutta la sua famiglia. E in particolare sono i suoi figli, che vengono privati, anche per tutta la loro fanciullezza e adolescenza, di un genitore. Certo, il padre o il figlio recluso poteva pensarci prima, prima di compiere i suoi reati (se li ha commessi veramente), ma la Società e lo Stato ci devono pensare dopo, non regalando niente a nessuno, ma neanche negando i benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario, quando sono state maturate le condizioni per accedervi.
Perché, cari amici liberi che mi leggete, ricordatevi sempre che una buona parte del sovraffollamento carcerario è provocato anche dalla sconcertante severità, o prudenza, o dimenticanza nelle pile di pratiche accumulate, con cui vengono trattate le tante richieste di permessi premio, di affidamenti in prova, di semilibertà e di arresti domiciliari. Ed è un serpente che si morde la coda: più sovraffollamento c’è, più si accumulano le pratiche da trattare, più aumentano queste pratiche in giacenza, più cresce il numero di persone che rimangono ingiustamente ad affollare gli istituti di pena.
Ricordatevi, cari cittadini, magistrati e politici: quando volete “gettare la chiave” di una persona detenuta, quando non gli date una possibilità di riabilitazione e una speranza di uscita, gettate via anche le esistenze dei loro familiari e dei loro figli. Che non hanno fatto nulla, ma che pagano lo stesso.
Gianni Alemanno con Fabio Falbo