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Più di un miliardo di persone nel mondo convivono con un disturbo mentale. Quasi la metà dei ricoveri psichiatrici avviene in forma involontaria. Lo rivela il nuovo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sulla salute mentale pubblicato nel 2025. Non è l’unico numero che racconta un sistema sbilanciato: i dati mostrano che nei servizi psichiatrici di base prevale nettamente il ricorso ai farmaci, mentre i percorsi psicosociali restano marginali. Solo il 18 per cento dei Paesi offre in modo strutturato tutti i servizi essenziali: casa, lavoro, istruzione, assistenza legale. E in molti contesti, negli ospedali psichiatrici permangono condizioni degradanti, maltrattamenti e degenze che si prolungano per mesi o anni.
Numeri, dunque, che non parlano di cura, ma di gestione forzata della sofferenza. Un quadro che non cita mai le carceri, eppure sembra descriverle. Perché proprio dietro le sbarre la questione della salute mentale assume contorni ancora più drammatici. Lo mostrano le ultime rilevazioni europee sulla salute in carcere: un detenuto su tre convive con disturbi psichici.
L’OMS, attraverso la banca dati sulla salute in carcere, indica un valore del 32,8 per cento nei Paesi che forniscono informazioni, con un limite evidente: molti Stati non raccolgono o non comunicano numeri completi. Eppure bastano questi per delineare l’emergenza. In carcere la principale causa di morte non è la violenza, ma il suicidio. Una revisione scientifica internazionale conferma il quadro: la depressione tra i detenuti tocca il 12,8 per cento, la psicosi il 4,1 per cento. Percentuali molto più alte rispetto alla popolazione generale. Significa che le prigioni ospitano decine di migliaia di persone già fragili, senza offrire percorsi adeguati di cura e reinserimento.
IN CELLA LA MALATTIA PEGGIORA
L’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine sottolinea come nelle carceri i disturbi psichici si intreccino con le dipendenze. Alcol e droghe aggravano il disagio e rendono ancora più difficile la gestione della vita detentiva. Servirebbero programmi integrati, capaci di unire terapie farmacologiche, supporto psicologico e progetti di reinserimento. Al contrario, le carceri restano luoghi in cui la sofferenza si incrocia con l’abbandono istituzionale. Mentre c’è Human Rights Watch che da anni documenta casi di uso sproporzionato della forza contro detenuti con disturbi mentali, spesso ridotti all’isolamento prolungato o sottoposti a sedazioni forzate. Sono pratiche che non curano, ma annientano. In alcuni casi hanno portato alla morte. Scene che risuonano con quanto l’OMS denuncia per le strutture psichiatriche: maltrattamenti, trascuratezza, violazioni dei diritti fondamentali. La differenza è che in carcere non esiste nemmeno la parvenza di un contesto terapeutico. Il filo conduttore è la mancanza di trasparenza. L’OMS lo evidenzia per i servizi psichiatrici, i rapporti internazionali lo confermano per le carceri: i numeri sono incompleti, spesso sottostimati. Senza dati reali, i governi non sono costretti ad affrontare l’emergenza. E intanto le prigioni si trasformano in contenitori di disagio, dove chi è fragile diventa invisibile.
CHE COSA ANDREBBE FATTO
La strada, indicata anche dai rapporti internazionali, è chiara: raccolta dati obbligatoria e pubblica sullo stato di salute mentale nelle carceri, abolizione o drastica limitazione delle pratiche coercitive, programmi di cura che uniscano farmaci e percorsi psicosociali, investimenti su lavoro, istruzione e assistenza legale per i detenuti. E soprattutto alternative alla detenzione per chi vive con gravi disturbi psichici. Il rapporto dell’OMS sottolinea un’altra lacuna sistemica: la frammentazione tra assistenza specialistica e servizi territoriali. Nella maggior parte dei Paesi, i letti rimangono la risposta dominante; comunità e servizi primari restano sottodimensionati. Quando una persona con disturbi mentali entra in carcere, spesso interrompe una cura, o non la trova affatto; quando esce, raramente viene accompagnata da una continuità terapeutica reale.
Questo corto circuito produce recidiva di malessere, di comportamenti antisociali legati alla malattia e alimenta il circolo vizioso della reclusione.
Si aggiunge il fatto che i budget sono molti ristretti: molti paesi destinano una frazione esigua delle risorse alla salute mentale. Il rapporto dell’OMS mostra come, in termini di spesa, la fetta destinata ai servizi comunitari sia minima rispetto alla somma destinata alle strutture contenitive. Questo orientamento finanziario si traduce in scarsa capacità di attivare alternative alla detenzione per chi ha problemi mentali. Scarsità di personale formato: i numeri del mondo della psichiatria e delle professioni psicosociali sono esigui in molti paesi; dove ci sono, spesso non sono integrati nella macchina penitenziaria. Formare personale sanitario e formazione anche per gli operatori penitenziari è condizione necessaria per ridurre abusi e migliorare presa in carico.
I CPR COME I VECCHI MANICOMI?
In tutto questo, in Italia Marco Cavallo — il cavallo azzurro nato nel 1973 dall’esperienza di Franco Basaglia a Trieste — riprende il suo viaggio. È iniziata sabato scorso a Gradisca d’Isonzo, uno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) che le associazioni indicano come fra i più duri d’Italia. L’obiettivo è semplice e diretto: portare vicinanza, raccogliere testimonianze, mettere in luce condizioni che per i promotori «per molti versi ricordano gli Opg», ma che forse sono ancor più crudeli dal punto di vista umano». Il progetto, lanciato a febbraio dal Forum Salute Mentale, ha raccolto decine di adesioni — associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti. Marco Cavallo attraverserà i CPR italiani consegnando lettere scritte dai sostenitori alle persone trattenute, accompagnato da bandiere create con tessuti di scarto. Il regista Giovanni Cioni filmerà il percorso che si conclude il 10 ottobre a Bari per trasformarlo in testimonianza visibile.
Le denunce raccolte in questi mesi sono nette. La rete Mai più lager – No Cpr ha descritto l’estate vissuta dentro Gradisca: celle roventi, focolai di scabbia, ragazzi che tentano il suicidio, autolesionismi ripetuti. Si parla di pestaggi notturni con manganelli e di episodi specifici, come quello denunciato a maggio contro un giovane con problemi psichici e fisici. A fine agosto, denunciano le stesse attiviste, un ventenne identificato come S. si è procurato tagli profondi; dopo aver filmato la risposta sprezzante degli agenti nel chiedere aiuto, sarebbe stato picchiato per strappargli il cellulare dalle mani. Quelle denunce non restano astratte: indicano un corto circuito fra responsabilità del gestore, assenza di presidio sanitario efficace e un sistema di controllo che spesso funziona più per isolare che per curare. Le attiviste sintetizzano così il mese di agosto: l’emarginazione si aggrava, i servizi — compreso il presidio della salute — si dissolvono o diventano inconsistenza. La partenza da Gradisca ha anche una dimensione simbolica e politica. Il viaggio si intreccia con la campagna “180 Bene Comune. L’arte per restare umani”, promossa dal Forum Salute Mentale. La legge 180 non è solo la norma che chiuse i manicomi: è, dicono gli organizzatori, un presidio di civiltà che riguarda i diritti, il riconoscimento dell’altro, la capacità di convivere con la diversità. Oggi, avvertono, se quella memoria si affievolisce i CPR rischiano di diventare le nuove istituzioni della segregazione e della violenza sociale. E presto anche l’OMS potrebbe essere costretta a parlarne.