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CARCERE
Tra i 43 suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno dietro le sbarre, ce n’è uno che merita particolare attenzione. È quello di un uomo di quarant’anni, morto il 6 luglio scorso nella Casa di lavoro di Vasto. Non un detenuto nel senso stretto del termine, ma un internato. La differenza non è di poco conto. Parliamo di una delle circa 300 persone in Italia che, pur avendo già scontato la loro pena, non hanno riacquistato la libertà. Usciti dalla condanna, entrano nel limbo dell’internamento: una misura di sicurezza detentiva, teoricamente pensata per contenere la cosiddetta “pericolosità sociale”, ma che nella pratica rischia di diventare una detenzione infinita, senza colpa e senza fine certa.
L’internato, per definizione, non sta scontando una pena. Ha già pagato il suo debito con la giustizia. Ma viene ritenuto pericoloso — spesso sulla base di valutazioni discutibili e opache — e per questo viene trattenuto in una delle strutture previste dalla legge: le colonie agricole o le case di lavoro. Due sigle che evocano un passato di fascista memoria e che oggi, invece, continuano ad esistere nell’ordinamento penitenziario italiano, regolato dal vetusto articolo 215 del codice penale.
Sulla carta, le colonie agricole e le case di lavoro dovrebbero garantire attività lavorative differenziate: nei campi, nel primo caso, o in contesti artigianali o industriali, nel secondo. In teoria, insomma, dovrebbero offrire un’occasione di reinserimento sociale. Ma la realtà è ben diversa. Le case di lavoro — come quella di Vasto — assomigliano in tutto e per tutto a normali sezioni carcerarie, solo che il reato è già stato “scontato”. E come nelle sezioni carcerarie ordinarie, il lavoro continua a latitare. In molte di queste strutture, le attività lavorative sono nulle o marginali, trasformando quello che dovrebbe essere uno strumento di rieducazione in un contenitore punitivo.
Il paradosso è evidente: si continua a restare chiusi in cella, senza programmi, senza lavoro, senza prospettive. La misura di sicurezza si svuota del suo senso originario — prevenire, rieducare — e diventa pura afflizione, una detenzione travestita. In soldoni, si resta dentro per un’etichetta — “delinquente abituale, professionale o per tendenza” — che può bastare a prolungare l’internamento di sei mesi in sei mesi, fino a farlo diventare una prigione perpetua senza condanna.
Una ricerca che scoperchia l’ossimoro
A mettere nero su bianco quello che in molti nel mondo penitenziario sospettano da anni, è stata la “Società della Ragione” con una ricerca approfondita sulle nove case di lavoro e colonie agricole ancora operative in Italia. Il lavoro, curato da Giulia Melani, Katia Poneti e Grazia Zuffa e sostenuto dalla Chiesa Valdese, è stato presentato lo scorso anno ad Alba, in un incontro pubblico promosso dal garante piemontese dei diritti dei detenuti, Bruno Mellano. Il titolo scelto per la pubblicazione, edita da Menabò, è già di per sé una presa di posizione: Un ossimoro da cancellare. Perché di questo si tratta. Un paradosso giuridico e istituzionale che resiste per inerzia, lontano dai riflettori.
Il paradosso, o per meglio dire l’inganno, è tutto nel nome: “Casa di lavoro”. Un’etichetta che promette rieducazione attraverso l’impegno produttivo, e che invece cela un vuoto operativo e una stagnazione totale. A sentire i racconti degli stessi internati, il lavoro non solo è assente: è inesistente. Nulla, o quasi nulla, viene proposto. E allora quella che dovrebbe essere una misura alternativa alla detenzione si trasforma nell’ennesima cella, solo con un altro nome scritto sulla porta.
Il dato ancora più inquietante che emerge dallo studio è che queste “case di lavoro” non sono altro che ex manicomi. A Barcellona Pozzo di Gotto e ad Aversa si trovano dentro i locali degli ex OPG, i vecchi manicomi giudiziari dismessi. La sola struttura “autonoma” è quella di Castelfranco Emilia, che però in passato era già un carcere a custodia attenuata. Nessun luogo nuovo, nessun approccio diverso. Solo un riciclo edilizio di spazi detentivi, buoni per ogni uso.
Certo, proporre l’abolizione di queste misure in un clima politico agitato, dove le parole “sicurezza” e “certezza della pena” vengono usate come clava, può sembrare una battaglia persa. Ma le battaglie di civiltà spesso partono proprio da qui, da chi ha il coraggio di mettere in discussione l’abitudine all’ingiustizia.
Come è stato possibile chiudere i manicomi giudiziari, può essere possibile fare lo stesso con questo residuo penale del positivismo ottocentesco. Una proposta di legge in questo senso c’è già. L’ha presentata alla Camera l’onorevole Riccardo Magi: è una proposta ragionata, non demagogica, che si muove dentro i binari dello Stato di diritto. Basta leggere il testo per capire che non si tratta di una fuga in avanti, ma del tentativo di riportare coerenza dove oggi regna l’arbitrio.
Il 41 bis nella casa di lavoro
Chi termina di scontare la pena in regime di 41 bis può non tornare in libertà, ma restare internato in una casa di lavoro, sempre sottoposto alle stesse restrizioni del “carcere duro”. Una situazione paradossale, già finita all’attenzione della Corte costituzionale che, il 21 ottobre 2021, ha respinto le censure sollevate dalla Cassazione. Quest’ultima aveva accolto il ricorso presentato dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti del Foro di Roma e Piera Farina del Foro de L’Aquila. I due legali agivano nell’interesse di un internato del carcere di Tolmezzo, dove è attiva anche una sezione di casa lavoro: l’uomo, dopo aver scontato una condanna in regime di 41 bis fino al 2016, era stato colpito da una misura di sicurezza e da allora continua a rimanere recluso con le stesse modalità, senza alcun cambiamento sostanziale.
In pratica, il regime detentivo speciale vanifica qualunque obiettivo teorico della casa di lavoro, che per legge dovrebbe prevedere lo svolgimento di attività lavorative finalizzate al reinserimento. Ma – come scrivono gli avvocati nel ricorso – «essendo in 41 bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto – come previsto con precisione dall’ordinamento penitenziario – è costretto a restare chiuso nella camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno». Nel ricorso accolto dalla Cassazione, Vianello e Farina sottolineavano anche che un internato sottoposto al 41 bis è penalizzato rispetto agli altri: non può accedere ad alcune specifiche licenze previste dall’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario, strumenti che fanno parte del trattamento e che servono, come scriveva già la Cassazione nel 1986, a garantire «sia pur sporadiche occasioni di primo contatto con l’ambiente esterno». Ogni qualvolta sono state richieste, l’Ufficio di Sorveglianza le ha rigettate invocando il mantenimento del 41 bis.
Per la Consulta, però, l’applicazione del carcere duro anche in ambito di misura di sicurezza è legittima. Gli internati restano esclusi sia dalla semilibertà sia dalle licenze sperimentali e non possono uscire dalla struttura. I giudici costituzionali hanno però aggiunto che, almeno sul piano interno, devono essere garantiti momenti di socialità e la possibilità di accedere ad attività lavorative. Dichiarazione che, vista la realtà concreta delle case di lavoro, suona più come una clausola di stile che come una reale garanzia.