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Mattinata senza incidenti dopo le tensioni della notte al carcere di Regina Coeli a Roma, Lunedì 19 Agosto 2024 (foto Mauro Scrobogna /LaPresse) Morning without incident after the tensions of the night at the Regina Coeli prison in Rome, Monday August, 19 2024 (Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse)
Mentre il dibattito politico e mediatico si sposta sui problemi di sicurezza in carcere (traffico dei telefonini e droga) che ancora una volta dà linfa vitale a nuove misure inutilmente repressive, i detenuti continuano a morire. Quando l’alba irrompe, in molti istituti penitenziari riaffiorano altre vite spezzate. Dal primo gennaio 2025 a oggi, 43 detenuti hanno scelto di porre fine ai propri giorni impiccandosi. Una strage silenziosa, consumata tra muri che dovrebbero garantire sicurezza ma che, troppo spesso, si trasformano in prigioni dell’anima.
L’ultima tragedia arriva oggi da Massa, dove un detenuto tunisino di 26 anni, in cella dal 16 luglio per una revoca dei domiciliari, si è tolto la vita dopo un primo tentativo di suicidio fallito il giorno prima. È il 43esimo suicidio del 2025. «Una strage senza fine, nella sostanziale indifferenza del Guardasigilli e dell’esecutivo», ha denunciato Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, segnalando che a Massa ci sono 270 detenuti in una struttura da 102 posti, con appena 112 agenti a fronte di un fabbisogno stimato in 204.
Mentre Valentina Calderone, Garante dei detenuti del Comune di Roma, sul suo profilo Facebook ha denunciato: «Sabato notte, a Rebibbia Nuovo Complesso, si è tolto la vita un uomo di 54 anni, il 42esimo suicidio dell’anno e il terzo in un istituto romano» ha proseguito spiegando che «era rinchiuso in cella singola, svolgeva regolarmente un lavoro interno e aveva ancora molti anni di pena da scontare». Calderone confessa: «Sono due giorni che continuo a pensare alle parole del ministro della Giustizia Nordio, a come un’istituzione possa arrivare a dire che il sovraffollamento ha anche effetti positivi, perché un sacco di persone in carcere sarebbero state salvate dai compagni di cella». E conclude, rivolgendo un ultimo sguardo alle porte sbattute dei penitenziari: «A tutto quel dolore e a quella disperazione che vedo ogni volta che entro in un istituto, non servirebbe davvero aggiungere parole così sbagliate, irrispettose e prive di ogni minimo senso di responsabilità».
Il garante nazionale: carcere sia extrema ratio
I dati analizzati dal Garante nazionale fino al 7 luglio parlano di 37 suicidi e 130 decessi complessivi in carcere: 63 per cause naturali, 29 ancora da chiarire e 1 incidente mortale. Nei primi sette mesi del 2024 i suicidi erano stati 50, a dimostrazione di un’emergenza che non conosce tregua. Le vittime hanno un’età media di 42 anni, con 16 suicidi tra i 18 e i 39 anni e 21 tra i 40 e i 55. Il recluso più giovane aveva 22 anni, quello più anziano 70; molti erano prossimi alla fine pena: 14 avevano meno di tre anni da scontare, 14 erano ancora in attesa del primo giudizio.
Rilevante è il dato sulle condizioni di vulnerabilità, delle 37 persone che si sono suicidate ben 12 risultano senza fissa dimora. Dalla lettura della tabella, si legge nel report, è ipotizzabile che sono tre le condizioni sociali che possono influire: senza fissa dimora, disoccupazione e grado di istruzione. Dall’8 al 21 luglio si sono registrati altri cinque suicidi, portando il totale annuo a 42. Ogni storia è diversa, ogni fine una ferita aperta. Ma un’osservazione, nonostante sia debole e solo con un piccolo inciso, il Garante nazionale la fa: «Il Paese ha l’urgenza di adoperarsi per rendere l’esecuzione della pena non solo efficiente ed efficace sul piano della prevenzione, ma anche e non secondariamente compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed extrema ratio della detenzione».
Mentre i dati aggiornati descrivono una crisi nuda e crudele, il ministro Nordio parla di «10.000 nuovi posti detentivi». Ma, come osserva Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, basta una semplice somma per smontare l’annuncio: «Se vai a leggere il Messaggero, facendo la somma, i nuovi posti sarebbero 2.332. Ci vorrebbe Totò a dirgli “È sempre la somma che fa il totale”». E aggiunge: «Comunque, di posti ne mancano oltre 15.000. Ma non finisce qui. Nordio si annette anche i 400 posti del padiglione di Rebibbia che da almeno un paio d’anni sta lì lì per essere aperto. Di certo lui e il suo governo non c’entrano alcunché con la costruzione di questo e altri padiglioni». Anche ammesso che quei 2.332 posti siano di imminente apertura, «con quale personale li fa funzionare se già oggi gli agenti non ci sono? Ne mancano 6.000 dalla pianta organica».
Eppure, l’attuale governo, che su questo tema ha affinità con il Movimento Cinque Stelle, scambia “la certezza della pena” con il carcere a tutti i costi. Non sono bastate nemmeno le lettere da Rebibbia dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, notoriamente di destra. Così come non è bastata nemmeno la sensibilità del presidente del Senato Ignazio La Russa di Fratelli D’Italia, che ha dimostrato una apertura alla proposta di legge Giacchetti – Bernardini sulla liberazione anticipata speciale.
La mobilitazione dei garanti per mercoledì 30 luglio
Con un gesto che suona ormai come una sfida, i garanti territoriali hanno lanciato l’appuntamento per il 30 luglio, chiamando piazze e istituzioni a farsi testimoni di un’urgenza che non può più aspettare. Samuele Ciambriello, portavoce di questa ondata, ha levato lo sguardo oltre i cancelli: «Dobbiamo fermare la strage di vite e di diritti delle carceri italiane!» ha tuonato, mentre alle sue spalle si immaginava la folla invisibile di 62.000 uomini e donne costretti a vivere in un limbo quotidiano.
Tra loro, quasi 8.000 persone con meno di un anno di pena residua — pronte a uscire, eppure intrappolate — e, per i 46.000 definitivi, soltanto 250 magistrati di Sorveglianza a garantire che la legge resti viva. Le parole di Ciambriello si sono fuse con le richieste che da troppo tempo aspettano risposta: «Riduzione immediata del sovraffollamento, misure deflattive e la liberazione anticipata speciale come propone Giacchetti; potenziamento dei Tribunali di Sorveglianza; investimenti nell’esecuzione penale esterna e percorsi di reinserimento».
Non un elenco di buone intenzioni, ma un piano preciso, da portare in Parlamento e soprattutto dentro le carceri, per mostrare a chi governa il volto vero di una crisi ormai dilagante. E quel volto si chiama Foggia, con il suo sovraffollamento al 214%; San Vittore, dove ogni corridoio sembra risuonare di passi affollati; Santa Maria Capua Vetere, «spina nel fianco» di un sistema che fatica a reggere. Sono 29 gli istituti in sofferenza — 25 case circondariali, 3 case di reclusione, 1 casa lavoro — dove il soffocamento delle celle a regime chiuso lascia spazio solo al dramma più estremo: l’impiccamento, spesso avvenuto senza che nessuno potesse intervenire in tempo, in corridoi senza psicologi, in reparti senza spazi di socialità.
Manca, in queste mura, ogni spiraglio di normalità. Manca un progetto di rinascita, quel dettaglio di umanità che la Costituzione immagina ma che nella pratica resta un miraggio. Per questo, la manifestazione del 30 luglio non è un corteo simbolico: è un atto di denuncia, un ingresso collettivo dentro i cancelli per riportare alla luce le storie sommerse dal silenzio. Perché dietro ogni numero c’è un volto, un nome, una speranza che merita di riaccendersi. E soltanto smettendo di voltare lo sguardo potremo trasformare questo presente in un punto di svolta: spegnere il silenzio delle celle e riaccendere la Costituzione, restituendo dignità a chi ha già perso troppo.