Le parole del rapporto parlano chiaro: “condizioni detentive degradanti”, “violazioni della dignità personale”, “assenza di protocolli anti-suicidari”. È il quadro drammatico che emerge dopo la visita ispettiva condotta al Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) di Roma-Ponte Galeria dall’onorevole Rachele Scarpa (PD) e dall’avvocato Martina Ciardullo, collaboratrice del Progetto InLimine dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.

Al momento della visita effettuata a fine maggio, il centro ospitava 35 persone – 30 uomini e 5 donne – di diverse nazionalità, principalmente tunisina, marocchina, gambiana e nigeriana. La struttura è gestita dalla cooperativa sociale Ekene Onlus dal 17 febbraio 2025, ma già le prime impressioni della delegazione sono state agghiaccianti. “Otto persone per stanza, materassi macchiati di sangue e muffa, cimici da letto che tormentano i trattenuti”, descrive il rapporto. Le condizioni igieniche sono al limite del sopportabile: pulizie superficiali ogni tre giorni, bagni senza luce, acqua bollente che fuoriesce dalle docce creando pozzanghere maleodoranti sul pavimento di cemento.

Il dato più scioccante emerge dal registro degli eventi critici: in soli tre mesi, dal 20 febbraio al 27 maggio 2025, sono stati registrati 66 episodi gravi, di cui 44 atti autolesivi. Venti tentativi di impiccagione, cinque lesioni da taglio autoinflitte, quattro casi di ingerimento di corpi estranei come batterie e chiavi, un tentativo di darsi fuoco. “Per essere ascoltati, anche solo per chiedere uno shampoo o una visita medica, siamo costretti a compiere atti autolesivi”, hanno raccontato i trattenuti alla delegazione. Un cittadino straniero identificato come H. M. ha tentato di impiccarsi tre volte in quattro giorni consecutivi, dal 17 al 20 maggio.

Assistenza sanitaria fantasma

La situazione sanitaria rappresenta forse l’aspetto più drammatico di tutto il rapporto. Il medico è presente solo cinque ore al giorno, con un’unica infermiera per 24 ore a sorvegliare 35 persone in condizioni psicofisiche estremamente precarie. Non esistono luoghi per l’osservazione sanitaria dei trattenuti e, soprattutto, non ci sono protocolli per la prevenzione del rischio suicidario. Le visite psichiatriche, fondamentali in un contesto dove la disperazione spinge all’autolesionismo, sono state ridotte da sei a due a settimana. Il motivo? Con il cambio di gestione, non si svolgono più all’interno del CPR ma i trattenuti devono essere accompagnati dalla scorta alla sede dell’ASL Roma 3 in via Colautti. “Le disponibilità della scorta sono limitate”, spiega il rapporto, “e questo rende difficoltosa l’organizzazione delle visite”. Il personale sanitario ha confermato alla delegazione che questa situazione ha reso “oltremodo difficoltosa e dispendiosa” l’organizzazione delle visite, con tempi di attesa “assolutamente incompatibili con la necessità di tutelare le persone che presentino vulnerabilità psichiatriche”.

Ancora più grave: in sette casi documentati, nonostante tentativi di suicidio, non si è provveduto al rinvio al pronto soccorso. La decisione è lasciata alla discrezione del personale sanitario di turno, senza protocolli obbligatori. Il 16 marzo, dopo l’ingerimento di un corpo estraneo, nessun rinvio al pronto soccorso “per rifiuto del trattenuto”. Il 29 aprile, dopo un tentativo di impiccagione, “l’episodio è stato gestito dalla psicologa del centro”. Il 5 maggio, altro tentativo di impiccagione, “il trattenuto è stato tranquillizzato dagli operatori”. Una sequenza che si ripete il 14 e il 18 maggio.

Le carenze vanno oltre l’emergenza psichiatrica. Il personale sanitario ha denunciato l’assenza di un elettrocardiogramma nell’ambulatorio e la mancanza di corsi di formazione specifici per la medicina detentiva. Non viene più tenuto un registro degli invii al pronto soccorso e l’organizzazione delle visite esterne è gestita dall’ente gestore, non dal personale medico, creando “difficoltà di comunicazione e coordinamento”. I trattenuti denunciano un’altra anomalia: vengono sottoposti a “particolare insistenza” per l’assunzione di una “terapia” non meglio specificata, apparentemente somministrata per facilitare il sonno. Nel frattempo, le loro richieste di visite psichiatriche, anche dopo atti autolesivi, rimangono inevase. “Un trattenuto ha comunicato un forte stato di preoccupazione per le condizioni di salute mentale di un altro cittadino che compie atti autolesivi quotidianamente, sbatte la testa contro il muro e mangia la spazzatura”, riporta il documento. “Nonostante abbia tentato di attenzionare tale situazione, il soggetto non è stato sottoposto ad accertamenti”.

Manca completamente un periodo di osservazione sanitaria dopo gli atti autolesivi. Il caso di H. M. è emblematico: tre tentativi di impiccagione in quattro giorni senza alcuna misura preventiva. I trattenuti che hanno compiuto gesti anticonservativi “hanno riferito di non essere stati sottoposti ad alcuna nuova visita a seguito di tali gesti”. Il registro degli eventi critici, compilato a mano su un quaderno senza versione digitale, spesso non riporta nemmeno le generalità delle persone coinvolte, identificate solo con un numero. Un sistema che rende “complesso risalire all’identità” dei soggetti a rischio e impedisce qualsiasi forma di monitoraggio serio.

Diritti calpestati

L’assistenza legale è praticamente inesistente. I trattenuti non ricevono informazioni sui loro diritti e quando chiedono un avvocato vengono loro proposti solo pochi nominativi, non l’intera lista dell’Ordine degli Avvocati di Roma. “La maggioranza dei cittadini stranieri ignora la propria condizione giuridica”, denuncia il rapporto. Anche il diritto alla comunicazione è violato. I telefoni personali vengono sequestrati e sostituiti con cellulari del centro senza internet. Le videochiamate con i familiari si svolgono solo a tarda notte, alla presenza di un operatore, per pochi minuti.

Le condizioni alimentari completano questo quadro desolante. I pasti vengono distribuiti attraverso le grate e consumati nelle celle perché la mensa è inutilizzabile “per carenza di personale delle forze dell’ordine”. La qualità è pessima, le porzioni insufficienti, il latte della colazione diluito con acqua. I beni di prima necessità – shampoo, bagnoschiuma, dentifricio, carta igienica – non vengono distribuiti dopo il kit di ingresso. “Siamo costretti a lavarci solo con l’acqua”, hanno riferito i trattenuti.

“Si delineano gravi violazioni non solo delle disposizioni previste dal Capitolato di Appalto ma anche della dignità personale, del diritto alla salute, del diritto alla difesa e della libertà di comunicazione”, conclude il rapporto. La delegazione chiede giustamente un intervento immediato della Prefettura di Roma e dell’ASL Roma 3. Ma le misure richieste – “ripristino delle condizioni minime previste dal capitolato e adozione di protocolli specifici per la tutela della salute mentale” – rischiano di essere insufficienti se non si affronta la questione di fondo.

Si tratta di ripensare completamente il senso e le modalità del trattenimento amministrativo. Un luogo dove la metà degli eventi registrati sono tentativi di suicidio non può essere riformato: deve essere ripensato dalle fondamenta. Il CPR di Ponte Galeria ci mette di fronte a una verità scomoda: nel cuore dell’Europa, a pochi chilometri dal Vaticano e dal Parlamento italiano, esiste un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata per indifferenza sistemica. Il rapporto della delegazione non è solo un atto d’accusa contro una gestione fallimentare: è uno specchio che riflette i limiti della nostra capacità di riconoscere l’umanità dell’altro, soprattutto quando quest’altro è straniero, vulnerabile, invisibile.