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La difesa di Vallanzasca, durata per quasi tre anni, è stata la più cocente e avvilente delusione professionale della mia “modesta” carriera, al punto che ancora oggi, quando ci penso, mi provoca una grande tristezza e cerco vilmente di rimuoverla dal mio passato e mi fa fatica anche solo parlarne, ma credo che vada fatto, visto che tutti i media stanno seguendo l’ultima notizia, che ci dice che ormai, dopo più di mezzo secolo in gabbia, è un detenuto affetto da demenza senile tale da richiederne il ricovero in una struttura in grado di affrontare la conclamata patologia.
L’ultima volta che l’ho visto eravamo nell’aula del Tribunale di Sorveglianza di Milano, era il 2020 in piena emergenza Covid, quel giorno lui era ancora (quasi) perfettamente lucido e io, al termine del mio intervento, dissi ai cinque giudici che, se avessero negato per l’ennesima volta a un ultrasettantenne, il cui ultimo delitto vero (non certo il tentato furto di un paio di mutande da 10 euro!) risaliva all’epoca in cui io manco andavo all’università, qualsiasi spiraglio a quella cella in cui aveva trascorso quasi l’intera esistenza, avrei dismesso il mandato, non solo perché a quel punto sarebbe stato del tutto inutile, ma anche perché non volevo più partecipare con il mio avallo di soggetto legittimato a quello che ritenevo fosse un vero e proprio scempio anche dello stesso dettato costituzionale.
Speravo anche, ingenuamente, di sollevare con quel gesto un “problema” che sarebbe dovuto incombere su chi lo stava giudicando, ma invece arrivò il diniego in cui si leggeva persino della necessità di un “percorso graduale” (sic!), senza considerazione alcuna per le relazioni più che favorevoli degli esperti del carcere – in quotidiano contatto con lui da molto tempo – e per la disponibilità ad accoglierlo avanzata da due apprezzate comunità di recupero.
Quattro anni fa sarebbe stato ancora in grado di apprezzare il fatto di poter dormire, dopo mezzo secolo, in un letto senza sbarre.
Quella decisione mi sembrò a tal punto mortificante da spingermi a motivare la mia rinuncia anche al Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano – persona che stimo – attraverso una nota che riassumeva nel dettaglio tutto quanto accaduto e che avevo raccontato, con dolore, nel capitolo “Gli indifendibili” del libro La giustizia degli degli uomini. Racconti di tribunale (Mimesis Edizioni 2022).
La prima richiesta di semilibertà l’avevo avanzata due anni prima sulla base dei risultati positivi di un importante lavoro di equipe degli operatori ed educatori del carcere di Bollate (tra cui il bravissimo dottor Roberto Bezzi), dalla procedura di mediazione facente capo al professor Ceretti e a due cooperative accreditate nell’attività di recupero sociale dei detenuti, “Il Gabbiano” e “Opera in fiore” disposte ad accoglierlo, grazie all’impegno di Cecco Bellosi.
Nella loro relazione, a cui aveva dato ampio risalto anche la stampa, si parlava di un “cambiamento profondo, non solo anagrafico, ma intellettuale ed emotivo e frutto di sofferenza che sa emergere in modo autentico e non sovrastruturato e che appare di un livello tale (tenuto conto della persona, della sua storia e del contesto) che non potrebbe progredire con altra detenzione, che potrebbe, di fatto, al contrario sollecitare una nuova chiusura dello stesso”.
Quella prima richiesta fu valutata in una prima udienza attraverso una relazione, particolarmente approfondita, del presidente, il quale, dopo aver posto alcune domande al detenuto presente, aveva sostenuto la necessità di acquisire un rapporto disciplinare rispetto a un fatto riportato dai media, disponendo il rinvio a un’udienza successiva. Il rapporto così acquisito attestava che Vallanzasca era stato vittima del sopruso di una guardia, ma, all’udienza seguente, il collegio era completamente mutato. Non si fece più riferimento a quel documento e l’istanza venne rigettata per mancato decorso del termine di cinque anni per la semilibertà (dalle mutande) e perché fu considerato “non certo” il ravvedimento per la liberazione condizionale. E tutto questo sulla base delle dichiarazioni autoassolutorie rese da Vallanzasca, nel corso del processo, in merito al tentato furto delle mutande, sebbene questo fatto – come si poteva leggere nella stessa sentenza di condanna per le mutande – fosse stato definito “di modestissima entità, routinario e del tutto paragonabile agli altri casi di sottrazioni merci che si verificano ogni giorno nei supermercati”.
Attesi a questo punto il decorso del tempo utile e l’anno dopo depositai una nuova istanza, arricchita da ulteriori relazioni favorevoli del carcere.
Prima dell’udienza fissata terminò però la relazione sentimentale, che durava da oltre dieci anni, tra il mio assistito e la propria compagna, e così, non riuscendo a trovare immediatamente un alloggio alternativo, chiesi al giudice assegnatario un breve rinvio così da reperirne uno. Il rinvio mi fu concesso e, prima della nuova udienza, depositai il documento in cui si garantiva la disponibilià della cooperativa “Il Gabbiano” ad accoglierlo in entrambi i regimi alternativamente richiesti, presso la propria sede, poiché, si leggeva: “Già in passato la nostra cooperativa ha conosciuto il sig. Renato Vallanzasca per la presenza come volontario presso le nostre comunità di Pieve Fissiraga (Lo) e di Calolziocorte (Lc) durante la sospensione pena e nel periodo di semilibertà”.
Si precisava inoltre che: «Lo stesso detenuto potrebbe svolgere un’attività a supporto dell’orto biologico che viene coltivato dalla comunità». A sostegno della richiesta, allegai anche lo specifico programma della “Cooperativa Opera in fiore”.
All’udienza, però, nuovo cambio del collegio e, come relatore, un giudice applicato di fuori Milano, il quale ritenne necessario acquisire copia di due sentenze relative a delitti commessi circa quarant’anni prima e rinviata al mese successivo dove ci fu un altro cambio di collegio, la comunicazione della mancata acquisizione delle sentenze richieste e nuovo rinvio al mese successivo.
All’ennesima udienza di rinvio, ennesimo cambio di collegio e relatore – dove ci fu chiesto se acconsentissimo alla rinuncia all’acquisizione di una delle due sentenze chieste dal precedente giudice, poiché ritenute, da chi gli era subentrato, non più necessarie.
Alla fine, venne letta un’ennesima nuova relazione in cui si diceva che non era sufficiente quanto attestato dalle plurime relazioni positive del carcere, la parola passò al sostituto procuratore generale di udienza, il quale iniziò la sua – per altro brevissima – richiesta di duplice rigetto «sulla base di quanto ho sentito dalla relazione».
Profondamente avvilito per quel faticoso lavoro di anni sottoposto alla continua rotazione di giudici sempre diversi e alle loro difformi valutazioni, presi dunque la parola per dire che era incompatibile con le ragioni che mi avevano spinto a fare l’avvocato tenere in carcere per tentato furto di mutande, dopo cinquant’anni, un settantenne, e che, pertanto, quello sarebbe stato l’ultimo atto che avrei compiuto nell’interesse del mio assistito, anche perché non sarei stato più in grado di spiegargli ciò che neppure io riuscivo a comprendere, e così, quel giorno stesso, rinunciai al mandato inviando una nota riepilogativa al presidente.
Bravissimi i due colleghi che al mio posto si sono presi a carico la cosa impegnandosi per i successivi quattro anni, fino ad arrivare ad oggi, quando, come temevo purtroppo sarebbe accaduto quattro anni fa, non occorre più spiegargli nulla, perché Renato Vallanzasca, il simbolo del male universale, non è più in grado di capire nulla.
Complimenti allo Stato italiano e all’amministrazione della sua (in)giustizia!