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Una pratica a tutela dei giudici della Sezione specializzata del tribunale di Milano in materia di protezione internazionale rispetto a comportamenti che appaiono «lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria». A chiederlo al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura è il gruppo dei togati di Area: Alessandra Dal Moro, Elisabetta Chinaglia, Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Giovanni Zaccaro. Il riferimento è ad alcuni articoli di stampa a commento delle decisioni assunte in alcuni casi di concessione della protezione umanitaria, nei quali i giudici milanesi hanno valutato anche l’impatto della pandemia nei paesi di origine dei migranti. «Si tratta di ricostruzioni fuorvianti a proposito di decisioni che sempre avvengono caso per caso e sempre rivalutano i dinieghi decisi in sede amministrativa alla luce di un ricorso di parte -sottolineano i consiglieri di Area -il giudice all’obbligo di esaminare i casi di protezione internazionale alla luce della situazione del paese di origine al tempo della decisione» ricordano, richiamando una sentenza del 2018 della Corte di giustizia dell’Unione Europea e un pronunciamento delle sezioni unite della Cassazione. «Gli articoli richiamati inoltre attribuiscono ai giudici che le hanno emesse intenzioni e motivazioni di carattere politico del tutto improprie ed ulteriori rispetto all’applicazione della legge e alla tutela dei diritti che questa afferma e in questo senso - denunciano i togati - appaiono non rispettose dell’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale che la magistratura deve esercitare nel solo rispetto della legge indipendentemente dalla critica o dal consenso che ne possa derivare, come prevede la Costituzione». Con una serie di ordinanze depositate nei giorni a ridosso del Natale, il Tribunale civile di Milano aveva stabilito nei giorni scorsi che la protezione umanitaria per Covid può essere concessa qualora la pandemia dovesse rappresentare nel paese di origine un rischio tale da aggravare ulteriormente lo straniero già vulnerabile. Non si tratta però di un automatismo: le richieste saranno valutate in considerazione di altri elementi, come la situazione economica e i disagi sociali del paese di provenienza. L'impatto del virus sarà invece valutato in base all'"indice globale di rischio" con cui il Joint Research Centre della Commissione Europea ha specificato 100 parametri qualificando il rischio in tre fasce: pericolo di esposizione, criticità interne e capacità del sistema, a partire da quello sanitario.