Piero Tony oggi è Presidente del Dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, ma è stato magistrato per 45 anni: giudice Istruttore a Milano fino al 1974, ha istruito tra l’altro il primo procedimento contro le Br di Curcio, Cagol più altri, con l’allora sostituto procuratore Guido Galli; è stato anche sostituto Procuratore  Generale presso la Corte d’Appello di Firenze fino al 1998, dove chiese ed ottenne l’assoluzione per Pacciani nel processo sul Mostro di Firenze. Componente del Comitato Promotore dell’Unione Camere Penali per la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere, nel 2015 fu autore con Claudio Cerasa di Io non posso tacere (Einaudi), un libro che scosse prima ancora de Il Sistema l'intera magistratura. Cosa ne pensa del libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti? Per quanto riguarda il tema dello strapotere delle correnti, si tratta della scoperta dell'acqua calda. Non c'era bisogno del trojan inoculato nel telefono di Palamara per conoscere quei meccanismi di appartenenza. Li avevo già denunciati molti anni fa  quando scrissi Io non posso tacere e fui pesantemente attaccato dall'Anm perché secondo il sindacato avevo scritto cose inesatte. Il tempo mi ha dato ragione, ma la consolazione è magra. Credo che il libro Sallusti-Palamara  abbia sicuramente un valore aggiunto perché Palamara, avendo operato per anni nei più profondi meandri dell'organizzazione, può parlare per conoscenza diretta, quasi, absit iniura verbis, come un “pentito” , naturalmente mutatis mutandis quanto a motivazioni. Mi pare anche sicuro che Palamara, operando con questo libro una impietosa dissezione  dell'apparato giustizia, ne cancelli forse per sempre, e con effetti imprevedibili, la tradizionale sacralità; che  non consiste solo in fictio e paludamenti ma, soprattutto, in valori quali credibilità ed autorevolezza. Per concludere, mi pare anche che esageri definendo addirittura “sistema” l'apparato giustizia così com'è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati e tra loro quantomeno conniventi. Senza sottolineare – proprio in ogni pagina- che del “sistema” di cui parla è vittima estranea la maggior parte della magistratura . Cosa lo ha colpito di più? Palamara racconta dettagli molto convincenti, peraltro al momento non smentiti da nessuno. Quelli che mi hanno colpito maggiormente, per la loro gravità inaudita, riguardano  gli asseriti imbrogli per lottizzare e condizionare i processi. I segnali, a dir il vero, c'erano tutti: una persona normale non poteva non chiedersi come mai, ad esempio, per anni  una Procura come Milano fosse pressoché concentrata solo su Berlusconi. Ma possiamo anche citare il caso di Giulio Andreotti: sicuramente tanto mafioso da aver baciato un boss? Per non parlare del giudice Corrado Carnevale,  "l'ammazzasentenze", accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso come se il collegio di legittimità fosse monocratico. L'inchiesta durò circa dieci anni, venne condannato ed alla fine assolto. Furono costretti a tenerlo a lavorare fino a circa 80 anni per esilarante risarcimento degli anni di carriera perduti. Quanto  è accaduto a costoro oggi lo spiega Palamara: quello che lui chiama “il sistema” lo esigeva, il clima fortemente politico lo imponeva, guai a chi la pensava diversamente. Che l'ideologia possa minare l'autonomia e l'indipendenza di un magistrato lo abbiamo visto anche nella chat di Palamara relativa a Matteo Salvini. È terrificante il dialogo tra i due magistrati: per dettato costituzionale dovrebbero essere autonomi ed indipendenti. Tuttavia, paradossalmente, nonostante che per legge non possano essere iscritti a partiti politici,  tramite correnti politicizzate riescono ad organizzare una guerra politica contro un Ministro in carica. Fatto questo quadro, come usciamo da questa crisi? Due sono i rimedi, ineludibili: separazione delle carriere dei magistrati e sorteggio per il plenum del Csm, in modo che i candidati siano esenti da giri elettorali e non si instauri il circuito del promettere, del dare, del pretendere. Per far decollare il processo così come riformato nel 1989 occorre attivare la centralità del dibattimento - guerra tra le parti davanti a giudice terzo ed imparziale – ed abbandonare la vigente malaprassi della centralità delle indagini preliminari. Sottolineare e ricordare che nella fase delle indagini preliminari la difesa è pressoché assente e comunque inerme. E in tutti i gradi è svantaggiata perché l'arbitro indossa la stessa maglia dell'avversario, come ricorda l'Ucpi.  Non c'è dubbio. Ed è svantaggiata anche a causa della sentenza 255 del 3 giugno del 1992 della Corte Costituzionale che sancì il principio di non dispersione dei mezzi di prova, “il principio del norcino”, come lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla. Con ciò snaturando i principi cardine del processo accusatorio. Lo svantaggio della difesa deriva anche dal rapporto privilegiato che le procure hanno con gli organi di stampa.  Come si dice chiaramente nel libro di Sallusti e Palamara non è quasi mai vero che gli atti giudiziari escono perché li passano gli avvocati difensori. Non è possibile, perché  nella parte iniziale del procedimento esiste un momento in cui certi atti li hanno solo i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. Quindi se qualcosa arriva alla stampa può provenire solo da quelle fonti. Conseguenze?  Titoloni in prima pagina nell'immediatezza del fatto, rappresentazione dell'ipotesi accusatoria e colpevolista, formazione di una conseguente opinione pubblica, il cosiddetto processo mediatico, insomma. Molte persone sono state massacrate così, da un processo mediatico sostanzialmente inappellabile: se dopo anni vieni assolto, non se lo  ricorda più nessuno. Quale potrebbe essere una soluzione? Non citare i pm nei comunicati stampa?   Anche se è tutto fuori legge, nessuno interviene. Pensiamo a quante volte le persone vengono riprese ammanettate, anche se non si dovrebbe farlo. O a quante volte le forze dell'ordine vanno ad arrestare qualcuno e arrivano già con qualche troupe televisiva al seguito. Non mettere il nome del pm può avere come unica conseguenza il fatto che lui legga con minor soddisfazione il giornale il giorno dopo, se è  presenzialista o narcisista. Come tutte le libertà  anche quella di stampa è come cristallo, assoluta . Ciò non vieterebbe però di fare indagini, sulla fonte delle notizie pubblicate, nel momento in cui le carte le ha solo il pm e la polizia giudiziaria. Sarebbe altresì auspicabile che la stampa si autoregolamentasse  in maniera più adeguata. La parola chiave dell'inaugurazione dell'anno giudiziario è stata "credibilità". Lei crede che la magistratura è pronta ad intraprendere la via della redenzione?  Mi ero gonfiato di speranza quando circa quattro anni fa in un convegno dell'Anm a Siena nella mozione conclusiva si scriveva una cosa del tipo 'diamo atto che così non va, dobbiamo pensare che ci dobbiamo acculturare, grazie anche alla scuola di formazione dei magistrati'. Oggi cosa scopriamo: che anche codesta scuola pare sia lottizzata dalle correnti descritte da Palamara. La verità è che, per fortuna e misteriose ragioni, godiamo ancora di troppa credibilità rispetto a quanto emerso dalle chat di Palamara.  Ma sa qual è il vero problema? Mi dica. Quando scrissi che del processo era centrale solo la fase delle indagini preliminari e che il pubblico ministero ha uno strapotere eccezionale venni criticato fortemente anche se ora lo ammettono in molti. La centralità in quella fase non è tanto del pm, quanto della polizia giudiziaria. Cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? Io dico “indagini preliminari di polizia”, visto che la gran parte delle indagini viene svolta dalla polizia giudiziaria, su delega aperta o su sua iniziativa, tanto che alcune volte l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato. Significa che le prove – che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti – vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Questo viene accennato anche nel libro di Palamara quando racconta come da una qualsiasi velina o input si possa organizzare di tutto nei confronti di una determinata persona. Però in questo anche il gip ha le sue responsabilità.  Lei ha ragione e questo ci riporta alla necessità di separare le carriere. Approfitto per segnalare un frequente  e pernicioso malvezzo: il pm chiede una misura cautelare e il gip risponde anche dopo anni, quando per il tempo trascorso è ormai svanita ogni esigenza. Questo succede solo da noi. A proposito di questo, cosa ne pensa delle recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corsera?  Credo sia solo un problema di subcultura. Ne ha fatte tante altre nel corso della sua guerra ai fenomeni criminosi. Non è rimasto colpito quando disse che il suo compito era salvare la Calabria?  Non particolarmente, è un vezzo di tanti magistrati quello di voler essere salvatori, che sia dalla mafia, dalla n'drangheta o dalla immoralità fa poco differenza. A tal proposito Giovanni Falcone amava ripetere qualcosa  tipo «ma cosa c'entriamo noi con i fenomeni, noi giudichiamo le singole persone nei termini di legge». Lei ha citato Falcone: le faccio la stessa domanda che qualche giorno fa ho posto al professor Tullio Padovani. Il compianto giudice viene spesso strumentalizzato, De Magistris si presenta in televisione con la foto di Falcone e Borsellino alle spalle, ma poi nessuno ricorda che era favorevole alla separazione delle carriere. La foto di Falcone e Borsellino ce l'hanno un po' tutti nel taschino.  Falcone, che ho avuto modo di incontrare nel corso degli anni, considerava la separazione delle carriere un naturale corollario del processo accusatorio. Semplicemente questo. Sono passati più di 30 anni, convegni, proposta di legge popolare, ma il “naturale corollario”  è chiuso nel cassetto e si discute dell'acqua calda del dottor Palamara.