Pestaggi, abusi, molestie sessuali, diniego di cure mediche oltre ad un cronico sovraffollamento. Sono le condizioni di vita, più volte denunciate a livello internazionale nella prigione iraniana di Evin, un sobborgo della capitale Teheran.

Ora però grazie all’azione di hacker che hanno piratato le telecamere interne del carcere è stato possibile squarciare il velo. Un gruppo denominato “La giustizia di Alì” è infatti riuscito a far trapelare, consegnandole alle maggiori testate giornalistiche del mondo, immagini che testimoniano il grado di violenze perpetrate ai danni dei prigionieri. L’effetto dei video è stato così deflagrante da costringere adesso la giustizia iraniana a predisporre un’inchiesta ufficiale. L’indagine ha costretto il capo del sistema carcerario, Mohammad Mehdi Hajj- Mohammadi, ad ammettere gli abusi e, caso più unico che raro, a scusarsi pubblicamente. «Mi assumo la responsabilità per un simile comportamento inaccettabile, simili incidenti non si ripeteranno e i colpevoli saranno trattati severamente».

I pubblici ministeri hanno aperto un procedimento penale contro sei guardie che nei video commettono abusi su un almeno un prigioniero. Intanto la magistratura ha reso noto che alcuni autori delle violenze si trovano già in carcere. Inoltre Zabihollah Khodaeian, un portavoce della procura, ha affermato che le autorità hanno anche convocato altre due guardie sospettate per gli stessi reati.

I video, esaminati anche da Amnesty che ne ha descritto il contenuto, sono sedici. In sette di questi, agenti penitenziari picchiano detenuti; altri tre mostrano celle sovraffollate, due aggressioni di detenuti ad altri detenuti, altri due episodi di autolesionismo. Particolarmente drammatiche alcune immagini in cui un uomo rompe uno specchio del bagno per cercare di tagliarsi il braccio. I detenuti ammassati in stanze singole con letti a castello sono impilati tre a tre contro le pareti, avvolti in coperte per ripararsi dal freddo.

Nella prigione di Evin sono rinchiusi soprattutto prigionieri politici e cittadini con doppia nazionalità sui quali si giocano partite diplomatiche tra l’Iran e l’Occidente, le denunce per i maltrattamenti si susseguono da anni. Le testimonianze di alcuni ex prigionieri hanno messo in luce il grado di disumanità ambientale così come le torture che vengono praticate sistematicamente. Tra i metodi documentati da Amnesty figurano le frustate, le finte esecuzioni, il waterboarding ( finto annegamento), la violenza sessuale, la sospensione per gli arti, l’ingerimento forzato di sostanze chimiche.

A Evin si sono verificate morti sospette come quella dell’ambientalista Kavous Seyed Emami e di un’altra attivista Sina Ghanbari. Decessi derubricati come suicidi ma non così chiari tanto che lo stesso Parlamento iraniano era stato costretto a chiedere cambiamenti sostanziali dell’istituto penitenziario e a installare proprio le telecamere che hanno testimoniato i soprusi. L’ultimo e più noto caso che ha portato alla triste ribalta Evin è la vicenda di dell’avvocata per i diritti delle donne Nasrin Sotoudeh protagonista di uno sciopero della fame che ha minato pesantemente le sue condizioni di salute.

Non bisogna però pensare che la prigione di Evin sia una creatura- mostro del regime degli Ayatollah. Il carcere infatti è stato costruito nel 1972 durante il regno dello Scià Reza Pahlavi, doveva contenere i detenuti in attesa di processo ma fin da subito venne dotato di un’ala chiamata significativamente “Evin University”, la sezione dove venivano rinchiusi gli intellettuali oppositori e già da allora si cominciò a parlare di violazioni dei diritti umani. Il penitenziario è un vasto complesso dotato di un luogo per le esecuzioni, un tribunale e blocchi separati per criminali comuni e detenute. Progettato per 320 persone comprese le celle d’isolamento, durante la Repubblica islamica è arrivato ad ospitare fino a 1500 prigionieri.