C’è modo e modo di minimizzare un avviso di garanzia. A Beppe Grillo si potrebbe contestare il rinsavimento tardivo al solo fine di tutelare Virginia Raggi. Ma le riflessioni critiche che sull’istituto processuale cominciano ad arrivare dai magistrati non possono essere liquidate con la stessa ironia. Non lo si può fare a proposito dei richiami che il togato del Csm Piergiorgio Morosini ha affidato ieri a un’intervista col Giornale di Sicilia: «Va frenata l’anomalia tutta italiana in base alla quale i test di affidabilità del personale politico paiono un’esclusiva del processo penale», tanto per cominciare. Morosini poi aggiunge, a proposito dell’avviso all’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, che «quell’iscrizione sul registro degli indagati, possiamo oggi dire, a posteriori, venne presa a pretesto. E questa mi sembra una dinamica impropria per le nostre istituzioni». Qui non è solo questione di rinsavimento. È un allarme. Che Morosini lancia certo in modo particolarmente fragoroso, ma che non può essere ridotto a episodio isolato.

MOROSINI ( CSM): C’È CHI STRUMENTALIZZA

Solo il giorno prima un magistrato inquirente di peso e prestigio come Carlo Nordio aveva così concluso il proprio intervento sul Messaggero, innescato dal nuovo codice etico dei grillini: «Questa ennesima strumentalizzazione della giustizia dovrebbe far riflettere il governo, che ha in animo l’ambizioso programma di cambiare i codici penali. Poiché molti strumenti, a cominciare dall’informazione di garanzia, si sono rivelati inidonei negli scopi e fallimentari nei risultati, pensi a cambiarli in fretta. Eviterà almeno che qualche dilettante provi, da un palcoscenico, a porvi rimedio prima di lui».

UNA GIOSTRA CHE I PM NON CONTROLLANO PIÙ

Sono dunque le toghe, e spesso proprio quei pm tra i quali c’è chi ne ha fatto usi temerari, ad additare gli “avvisi” come una patologia di sistema. Il senso ultimo dell’allarme è nascosto forse in un altro passaggio dell’intervista di Morosini: «Sovraccaricare di significato politico la qualifica di indagato potrebbe incidere negativamente sullo stesso operato dei magistrati». È questo il vero timore: lasciare i pm alla mercè di un circuito mediaticogiudiziario che loro stessi non sono più in grado di controllare. Il concetto ricorreva, tra l’altro, anche in un’intervista rilasciata a questo giornale qualche giorno fa da un altro pm, Antonio Sangermano, che sostenne l’accusa al processo Ruby e che oggi rappresenta Unicost nel direttivo Anm. Si diffonde nella magistratura, in quella associata in particolare ( Morosini è un esponente di primo piano a Md), un’inedita prudenza rispetto gli effetti politici delle inchieste.

QUELLE CIRCOLARI DEI PROCURATORI SUGLI “ASCOLTI”

Altro segnale era arrivato poco meno di un anno fa dai capi di diverse Procure, che avevano diffuso circolari sulle intercettazioni. Tra i caveat, quello di vigilare affinché negli atti giudiziari non compaiano trascrizioni di telefonate tra persone estranee all’accusa e la cui privacy potrebbe essere indebitamente violata. Le “direttive” di questo genere sono partite da quattro grandi Procure, Roma, Torino, Napoli e Firenze, e poi si sono moltiplicate fino a diventare una ventina. Il Csm ha recepito quelle linee e ne ha fatto una delibera. Parte delle norme sugli ascolti finite nel ddl penale ne hanno tratto ispirazione, come ha ricordato pochi giorni fa il guardasigilli Orlando.

Sempre ieri su Repubblica è comparsa un’intervista a Giovanni Legnini in cui il vicepresidente del Csm invoca «il superamento dell’automatismo ‘ avviso di garanzia uguale dimissioni’, che da anni ha interessato il dibattito pubblico». Il mostro della giustizia spettacolo fa paura insomma persino ai vertici dell’ordinamento giudiziario. E non c’è da meravigliarsene. Intanto il messaggio di Grillo sui candidati che non possono certo essere selezionati dagli “avvisi” è un segnale poco distensivo nei confronti della magistratura. Ma soprattutto, la sete di sentenze e ordinanze esemplari che si diffonde nell’opinione pubblica rischia di tradursi in rischi serissimi proprio per le toghe. Come nel caso di un giudice del Tribunale di Roma che a inizio dicembre ha visto scatenarsi il putiferio in aula dopo aver comminato a un uxoricida una pena inferiore al previsto. Casi isolati? Non si direbbe. Sembrano solo i bagliori di un incendio che il populismo penale ha già provocato e che ora nessuno sa come spegnere.