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Il sistema penitenziario italiano si trova di fronte a una delle sue sfide più complesse e urgenti: la gestione della salute mentale di una popolazione carceraria sempre più eterogenea, in particolare quella composta da detenuti stranieri. In questo contesto, l'etnopsichiatria emerge come un campo di studio e di pratica fondamentale, sebbene ancora di nicchia, la cui mancata integrazione sistematica nel circuito detentivo si traduce in un fallimento sia sul piano rieducativo sia su quello umanitario.
Dentro le carceri non c’è solo la pena formale. Ci sono storie che vengono da lontano: fughe, violenze, riti che non trovano equivalenti nel mondo occidentale. È in questo spazio che l’etnopsichiatria — la disciplina che intreccia psichiatria e antropologia — propone qualcosa di semplice e scomodo: per curare bisogna capire il senso della sofferenza, non solo il sintomo.
Questa disciplina nasce per rispondere a tale realtà. Non è una moda teorica, ma una pratica clinica che unisce psichiatria e antropologia e che parte da un principio semplice e concreto: la sofferenza psichica si esprime con codici che cambiano da una cultura all’altra. Quello che in un contesto può essere letto come delirio, in un altro può avere valore rituale o sociale; ciò che appare come apatia può essere un modo di esprimere lutto o vergogna.
Per questo esistono strumenti operativi — come la Cultural Formulation Interview ( CFI) del DSM- 5, un protocollo di 16 domande pensato per aiutare il clinico a ricostruire l’universo culturale del paziente — che vanno tradotti in pratica dentro le strutture di cura; nelle carceri, dove le differenze sono concentrate, la loro assenza pesa.
I POCHI ESEMPI NOSTRANI
L'esperienza carceraria si innesta su una condizione di vulnerabilità già elevata per molti detenuti stranieri. Numerosi studi evidenziano come la probabilità di sviluppare un Disturbo Post- Traumatico da Stress ( PTSD) sia dieci volte superiore tra rifugiati e migranti rispetto alla popolazione autoctona, a causa delle violenze e delle esperienze traumatiche subite prima e durante il viaggio, come quelle nei campi libici. Per queste persone, la detenzione non è solo una privazione della libertà, ma un'ulteriore esperienza di sradicamento e isolamento che riattiva traumi profondi e alimenta una ' sofferenza sociale' che non può essere affrontata con un semplice modello clinico.
I detenuti stranieri si scontrano con barriere enormi fin dall'ingresso in carcere. Il primo ostacolo è la lingua, che rende impossibile la comprensione di avvisi e la compilazione di istanze necessarie per accedere a colloqui e servizi. L'assenza, quasi totale, di mediatori culturali professionisti è un problema critico. Spesso la comunicazione si basa sull'aiuto di detenuti connazionali, che fungono da interpreti. Questo meccanismo, pur offrendo una soluzione immediata, solleva questioni etiche e di efficacia. Affidare un ruolo così delicato a persone non formate, potenzialmente portatrici di dinamiche di potere interne al carcere, non solo non garantisce la qualità dell'interpretazione, ma riduce il detenuto a uno strumento, sottolineando la mancanza di professionalità e l'inadeguatezza strutturale del sistema nel gestire bisogni così complessi.
La medicina penitenziaria funziona su regole comuni a tutti i detenuti, ma la popolazione rinchiusa non è omogenea. Lingue diverse, storie di tortura, esperienze migratorie e riferimenti religiosi segnano il modo in cui un sintomo si manifesta e il rapporto con le cure. Senza mediazione culturale, molte valutazioni cliniche restano approssimative: si rischia l’etichettamento affrettato o la sottovalutazione di traumi complessi. In termini pratici, ciò si traduce in più eventi acuti, ricoveri e rapporti tesi con il personale. Le regole europee sul trattamento dei detenuti stranieri obbligano gli Stati a tenere conto delle necessità particolari di questa popolazione, ma in molti casi l’implementazione resta lontana.
A Firenze, nel carcere di Sollicciano, l’idea ha assunto forma operativa. L’Azienda USL Toscana Centro ha affidato al Centro Studi Sagarà un progetto di etnopsichiatria ed etnoclinica: interventi strutturati nel tempo, con attività che comprendono formazione del personale, mediazione linguistica e consulenze cliniche per detenuti stranieri. I documenti ufficiali del progetto dettagliano le risorse previste: in uno degli anni di attività sono programmate 225 ore di consulenza etnopsichiatrica, 270 ore di mediazione linguistica e 162 ore di mediazione etnoclinica.
Il finanziamento, contenuto ma dedicato, mostra che l’intervento è praticabile con risorse mirate; resta però un’esperienza a livello locale e temporanea. Nei fatti, si riduce a poche ore settimanali. Un secondo esempio italiano che mostra come la figura dell’etnopsichiatra stia lentamente entrando nelle carceri arriva dalla Sicilia. Nei mesi scorsi l’Azienda Sanitaria Provinciale ( ASP) di Enna, la Casa Circondariale di Piazza Armerina e il Consorzio Umana Solidarietà hanno firmato un protocollo per l’istituzione di servizi di etnopsichiatria e assistenza psicologica rivolti in particolare ai migranti detenuti.
L’accordo prevede il coinvolgimento di mediatori linguistici e culturali, consulenze cliniche specialistiche e percorsi di supporto tarati sulle vulnerabilità dei reclusi stranieri. Il progetto viene presentato come un primo passo verso servizi dedicati in una realtà carceraria con una quota elevata di persone straniere. Come nel caso di Sollicciano, la firma del protocollo a Piazza Armerina è un segnale politico e operativo: dimostra che le ASL, se sollecitate, possono mettere in campo accordi con il terzo settore per rispondere a bisogni culturali specifici. Anche qui si tratta di un avvio progettuale. La sfida sarà trasformare l’iniziativa in servizio stabile, con dati che ne misurino l’impatto clinico e organizzativo.
UN CONFRONTO CON L’ESPERIENZA EUROPEA
I due esempi nostrani si inseriscono in un quadro più ampio. In Francia il Centre Georges Devereux è un punto di riferimento per l’etnopsichiatria clinica: non è una struttura carceraria, ma lavora da anni con migranti, richiedenti asilo e persone passate attraverso circuiti di detenzione amministrativa, offrendo formazione, consulenza e pratiche cliniche che integrano mediazione culturale. Il modello francese mostra come centri specialistici possano fare rete con le istituzioni che gestiscono migranti e con i servizi che afferiscono al mondo della giustizia. In Germania, gruppi universitari e reparti specialistici dedicati alla psichiatria transculturale nelle grandi aziende ospedaliere collaborano con servizi penitenziari: la letteratura tedesca segnala bisogni concreti nei detenuti stranieri e pratiche già avviate per l’integrazione di mediatori e interventi multilingue.
Queste esperienze offrono percorsi diversi ma convergenti: centri specialistici che supportano le istituzioni ( modello francese) o integrazione delle competenze transculturali nelle strutture ospedaliere che servono il carcere ( modello tedesco).
L'assenza strutturale dell'etnopsichiatria nel carcere è il sintomo di un problema più profondo: la disconnessione tra i principi costituzionali di rieducazione e dignità e la cruda realtà di un sistema penitenziario al collasso. L'analisi teorica dimostra che il disagio mentale dei detenuti stranieri non può essere compreso né curato con i modelli standard della psichiatria classica, poiché è intrinsecamente legato a esperienze di sofferenza sociale e sradicamento. I dati empirici confermano questo bisogno, mettendo in luce l'inadeguatezza del sistema, l'alta percentuale di detenuti stranieri e l'uso sproporzionato di psicofarmaci come strumento di gestione. Con una popolazione carceraria sempre più eterogenea e traumatizzata, l'etnopsichiatria non è un lusso, ma una necessità impellente.