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«Una bella giornata di sole. Tutto andava a meraviglia. All’improvviso quattro toc toc alla porta, mio figlio mi chiede “ma, chi sarà? ” E io “boh, apri”. Mi trovo davanti tre colossi e una donna che mi dicono signora, ci segua. È in arresto e io già ci sto con il bracciale e loro No, signò, è arrivato il definitivo. Prepari le sue cose e ci segua. Ha dieci minuti. Dieci!!», in pochi minuti la vita di Maurizia cambia; da due anni è reclusa nel carcere femminile di Rebibbia. «Dopo aver versato fiumi di lacrime, cazziatoni, litigate, amicizie vere e no, mi rendo conto mi servirà. Eccome!», così si racconta oggi nel libro ' A mano libera. Donne tra prigioni e libertà', una raccolta di testi, frutto del lavoro fatto da novembre 2016 a maggio 2017, con il laboratorio ” A mano libera” tenuto proprio nella Casa circondariale femminile romana. Le curatrici del libro, Tiziana Bartolini e Paola Ortensi, hanno tenuto degli incontri settimanali con le detenute partecipanti durante i quali hanno discusso di attualità e commentato i fatti, sollecitando riflessioni che, talvolta, sono ' diventate parole fissate sul foglio bianco'. Nello stesso modo si sono tenuti gli incontri nei due anni precedenti e i relativi scritti sono stati pubblicati nel sito www. noidonne. org, dove si trovano tutte le informazioni per acquistare il libro edito da Cooperativa Libera Stampa.
A Rebibbia sono recluse circa 350 detenute, di cui il 50% è costituito da straniere, tra queste moltissime sono rom. Nella maggior parte dei casi le donne sono ristrette per spaccio di droga e, in misura minore, i reati che le riguardano sono legati allo sfruttamento della prostituzione, a furti e rapine e a delitti contro la persona. ' Il dentro e fuori è lo scambio che volevamo stabilire e che in vario modo abbiamo sentito muovere', raccontano le curatrici nelle pagine del libro. «Questo scambio si materializza, e non solo simbolicamente, con le riflessioni di non detenute nell’intento di creare un unico e armonico flusso narrativo che abbiamo volutamente accentuato scegliendo di firmare ogni pezzo solo con il nome di battesimo. Siamo consapevoli delle differenze che ci sono tra chi ha avuto destini tanto diversi, ma pensiamo che l’essere donne ci accomuni molto più di quanto non sia visibile a “ocche chio nudo”».
All’interno del testo anche una intervista alla dottoressa Ida Del Grosso, direttrice dell’istituto di pena, che racconta del suo percorso umano e professionale che l’ha condotta a dirigere un carcere e traccia una sorta di identikit delle detenute: «Mi sembrano doppiamente vittime per una serie di ragioni: molte sono succubi di personaggi maschili ( padri, fidanzati, fratelli) e i loro reati sono riconducibili a queste relazioni affettive o familiari. Rarissimamente sono state consapevoli che stavano compiendo scelte delinquenziali, spesso hanno agito per quello che ritenevano essere amore o pensando di aiutare la persona amata. Non riescono a dire dei no che talvolta sarebbero fondamentali per salvarsi». E a conferma arrivano le parole di Laura: «Per una donna che difende a ogni costo un uomo nonostante lui le abbia fatto del male, ritengo di poter dire che è la donna ad avere bisogno di un aiuto concreto, qualcuno che le faccia capire che il suo non è vero amore, è solo essere soggiogata da qualcuno che lei pensa che la ami, ma è una questione talmente complessa, che io personalmente non mi sento in grado di giudicare, posso solo dire che se ne parla molto ma in sostanza c’è ancora molto da fare». Nelle pagine, articolate in brevi capitoli con titoli evocativi ( Del tempo, Della solitudine, Delle prigioni interiori e del buono in carcere, dell’amore, solo per citarne alcuni), si incontrano anche le storie di Patrizia e della sua infanzia con un padre adottivo violento: «C’erano schiaffi, cosa distruttiva, insulti e per di più, la cosa che mi fece davvero male era quando insultava i miei genitori veri». E di Silvia che era sempre stata “la principessa di casa” ma che poi molla il suo lavoro di vigilessa e scappa dalla famiglia per vivere la sua storia d’amore con un rom italiano: quattro figli stupendi da cui si è dovuta separare perché è da sette anni in carcere e sono tanti ancora quelli da scontare per reati contro il patrimonio. E poi alla fine ci sono loro “le divise blu” apostrofate in maniera poco carina come ” guardie, divisine, senza cuore, infami” ma che «cercano di aiutare altre donne senza porsi il problema di che reato abbiano commesso, che cercano in tutti i modi di prestare loro assistenza».