«Avrà un compito gravosissimo». Ad Alfonso Bonafede lo rammentano tutti, uno per uno, i membri del Csm. Lo accolgono al suo esordio nella sala del plenum di Palazzo dei Marescialli con un misto di simpatia e solidarietà per la sfida che lo attende. Eppure, dalla seduta straordinaria convocata ieri mattina al Consiglio superiore della magistratura, la prima appunto per il nuovo ministro della Giustizia, si capisce un’altra cosa: Sergio Mattarella farà sentire il suo peso anche di presidente dell’organo di autogoverno dei giudici. Ne dà prova in un dibattito in cui Bonafede non esita a confessare la propria «emozione». Matterella lo ascolta, come non smette di seguire i consiglieri che, dopo il vicepresidente Giovanni Legnini, producono una lunga sequenza di interventi. Poi il presidente della Repubblica dà il senso dell’intera giornata, voluta da Legnini per fare il punto sullo «stato dei rapporti tra ministero della Giustizia e Consiglio superiore». Secondo Mattarella quel rapporto deve essere «franco e rispettoso delle rispettive funzioni».

Apartire dal dato normativo: la legge 195 del 1958, in base alla quale «il Csm può formulare proposte al ministro ed esprimere pareri sui provvedimenti che riguardano la giustizia». Esempio, per il Capo dello Stato, di come sia possibile «realizzare interventi incisivi con gli strumenti disponibili», non necessariamente dunque attraverso grandi riforme. È già efficace quella «definizione delle buone prassi» che Mattarella tiene a citare come uno dei pregi della consiliatura prossima a concludersi. Una “misura” nel regolare il sistema giustizia che la massima istituzione repubblicana considera, evidentemente, un modello per il legislatore. Il quale, dice, dovrebbe produrre «interventi di riforma» che, «per essere realmente efficaci» vanno «attuati con lungimiranza e non determinati da situazioni di emergenza».

IL DIALOGO CSM- CNF

Ecco, è il primo monito. Che pare cucito addosso al profilo un po’ ridondante proposto dalla maggioranza nella parte del “contratto” relativa alla giustizia. Ma Mattarella non si ferma a questo. Spiega che in quell’equilibrio del sistema - ben mantenuto nei rapporti tra il Csm e il predecessore di Bonafede, Andrea Orlando - si rivela «una attitudine di questo Consiglio nel privilegiare il dialogo, e nel coinvolgere tutti gli operatori della giustizia. In particolare l’avvocatura», ricorda il presidente, «che assicura l’effettivo esercizio del fondamentale diritto di difesa». Mattarella pare riferirsi a un fatto determinato: la sintonia tra questo Csm e il Consiglio nazionale forense. Al Capo dello Stato non deve sfuggire il significato, e anche i frutti positivi derivati dal protocollo d’intesa sottoscritto due anni fa dal vicepresidente Legnini e dal presidente del Cnf Andrea Mascherin, a cui fa riferimento anche il togato Claudio Galoppi.

Ora, terzo pilastro della lezione impartita da Mattarella nella sala del plenum è la vera «finalità» della giustizia, ossia «la tutela dei diritti». E qui il presidente della Repubblica sembra muovere un garbatissimo rilievo al tono prevalente degli interventi che lo hanno preceduto, quasi tutti rivolti all’organizzazione, ai criteri di nomina e alle relative polemiche in corso tra le toghe: «L’attenzione agli aspetti organizzativi non deve tradursi in asservimento all’organizzazione stessa», avverte.

I «diritti» vengono prima. E il cerchio sembra chiudersi, rispetto a questo primo passaggio al più alto livello istituzionale, che nel suo “primo atto”, gli Stati generali convocati dal Csm la scorsa settimana, aveva visto il presidente del Cnf Mascherin rivolgere un appello a Bonafede: va evitato, aveva detto, che la pur necessaria attenzione alla «efficienza» faccia passare in secondo piano «garanzie e diritti». È un confine sottile, quello tra efficientismo e principi fondamentali, che spinge lo stesso Legnini a mettere in guardia da «torsioni prestazionali nei confronti dei singoli magistrati». A soffermarsi sui diritti sono non molti dei consiglieri intervenuti dopo di lui. Tra questi, Nicola Clivio, presidente della settima commissione: impietoso, snocciola le urgenze che Bonafede dovrà sbrigare, tra l’altro, in materia di procedimenti sulle richieste d’asilo. Poi spiega: «Ho speso il mio intervento su questo perché è tema al centro dei fatti di questi giorni». Modo garbato per chiedere al guardasigilli di non assecondare gli estremismi di Salvini sulla questione migranti. Anche Franceco Cananzi tiene a ricordare che «l’indipendenza dei magistrati assicura democrazia», come dimostra proprio l’ambito della protezione internazionale. E aggiunge: «I diritti umani non hanno limiti né confini, in ogni fascicolo c’è la storia di una persona».

CORRENTI E VELENI

C’è un altro risvolto, nel plenum dell’esordio di Bonafede: lo scontro fra le correnti. Che sono all’ultimo chilometro della loro campagna elettorale. Galoppi non fa nulla per nascondere l’ombra di Davigo, quando parla di «una visione della giustizia che non può essere pensata per bucare gli schermi televisivi». E il laico Antonio Leone pare riferirsi a una frase di Sebastiano Ardita, magistrato di punta della corrente davighiana, quando dice: «È indecoroso sentir dire che la sezione disciplinare del Csm è da Corea del Nord». Allusione ai rilievi del pm di Catania sul caso di Woodcock. Altra mina che non mancherà di movimentare il mandato di Bonafede.