No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato.

In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile.

Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”.

I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss.

La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979.

Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio.

Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”.

Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.