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Un estratto del libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 231, 18,00 euro. «Mentre Amato sale al Quirinale con la lista dei ministri, i socialisti scagliano attacchi pesanti contro Mani pulite, minacciando perfino dimissioni a raffica dalle cariche pubbliche se l’inchiesta non verrà fermata: una linea da cui si dissocia, pur tra distinguo, Claudio Martelli. Gennaro Acquaviva, un senatore molto vicino a Craxi, sostiene che “nelle indagini vengono adottati provvedimenti di tale violenza che non trovano riscontro neppure nelle inchieste contro la mafia e vengono commesse illegalità sempre più evidenti in dispregio dei diritti dei cittadini”. Ovviamente è in questione la “dottrina Davigo”, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti. Il giorno prima sono finiti in cella il segretario politico e quello amministrativo del Psi lombardo, il partito regionale è decapitato. Un avviso di garanzia arriva anche al deputato Sergio Moroni, a sua volta ai vertici regionali del Garofano fino a poco prima. Ormai pubblichiamo quasi ogni giorno gli elenchi dei “politici coinvolti”, una specie di summa quotidiana del crollo di sistema ridotta a infografico come le formazioni delle squadre di calcio nelle pagine sportive. A fine giugno i dc arrestati sono 11, 7 i pidiessini della corrente migliorista, 11 i socialisti, un repubblicano, 11 i parlamentari indagati tra democristiani, socialisti, repubblicani e pidiessini, 24 gli imprenditori incarcerati: ed è, chiaramente, solo l’inizio di ciò che ci aveva preconizzato ad aprile l’avvocato D’Aiello nei giardinetti davanti a San Vittore. Severino Citaristi, segretario amministrativo nazionale della Dc, riceve il suo primo avviso di garanzia per finanziamento illecito del partito. Gliene arriveranno decine, facendone il recordman degli avvisi. In questo, a guardar bene, si potrebbe già cogliere un paradosso dell’indagine: perché Citaristi è un vecchio bergamasco onestissimo, tutti sanno che non si è messo in tasca una lira, e tuttavia il meccanismo è spietato, scivola verso la responsabilità oggettiva (che nel diritto penale non trova spazio, tranne che per eccezionali fattispecie). “Non può non sapere” è un assunto che, per il momento, affonda i contabili ma promette di arrivare ben oltre. Si danno intanto alla macchia Giovanni Manzi, presidente della Sea, e Silvano Larini, l’architetto craxiano animatore delle notti di Brera. Entrambi considerati membri del circolo più stretto attorno al leader. Il partito di Craxi si sente preso di mira, e lo è, ma non per congiura: piuttosto, per il semplice motivo che l’inchiesta ha quale epicentro Milano, la città dalla quale Craxi aveva iniziato a costruire la sua ascesa e in cui ha radicato il suo potere. Dopo l’affondo di Acquaviva, i giornali ci chiedono una reazione dalla Procura. In gruppetto saliamo alla stanza di Borrelli, dove ci riceve in anticamera Alfonso, il fidato segretario del procuratore, che dispensa a noi ragazzetti della cronaca sorrisi tra il bonario e l’altezzoso, da vecchio ciambellano della Real casa.Consumata una certa dose di attesa, si manifesta infine Borrelli, ironico, felpato, l’aria di chi sia appena stato distolto da una battuta di caccia alla volpe: alza gli occhi con un lieve moto di sopportazione verso il soffitto del suo studio imbiancato di fresco quando gli riferiamo le battute sulle illegalità dell’inchiesta. Finge chiaramente di apprenderle in quel momento e sogghigna a mezza bocca: “Vorrei proprio conoscere in dettaglio quali sarebbero le illegalità cui fanno riferimento i nostri critici.In realtà ne abbiamo molte di illegalità sotto gli occhi e riguardano comportamenti del passato.Finché la legge penale non cadrà in desuetudine, il mondo dell’illegalità starà lì, nelle cose e nei fatti di cui ci stiamo occupando”. È la prima volta che questo magistrato quasi invisibile, noto soprattutto per la sua prudenza e la sua discrezione, usa il rasoio contro chi critica l’inchiesta. Ho l’impressione che il ruolo non gli dispiaccia affatto. E ho quasi la certezza che quel ruolo possa trasformarlo in un grande comunicatore. In quelle ore, Giulio Anselmi pubblica sul Corriere un editoriale molto netto, “Di chi è la giustizia”, che traccia la linea ufficiale del giornale: ci chiama fuori dalla mitizzazione di Di Pietro ma chiede ad Acquaviva di produrre qualcosa di più di generiche accuse se vuole essere creduto. In realtà la vera notizia starebbe nella foto accanto al testo che gira in terza pagina: Di Pietro e il gip Ghitti insieme, sorridenti e sottobraccio alla festa dell’Arma; “due dei giudici che indagano sulle tangenti”, recita la didascalia, nella sostanza ineccepibile, nella forma giuridica gravemente sbagliata. Perché Di Pietro non è un giudice ma un pubblico ministero e perché Ghitti non dovrebbe indagare con Di Pietro ma giudicarne le indagini, essendo appunto il giudice delle indagini preliminari, il gip. Questa confusione non scuote granché noi cronisti del pool, ma forse dovrebbe. Perché è il punto di caduta della storia del decennio precedente, che Anselmi sintetizza con efficacia nella prima parte dell’editoriale. La contesa comincia con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (nato dagli errori e dagli orrori del caso Tortora e voluto da Craxi nell’87) e si trascina fino alla battaglia sulla superprocura antimafia che avrebbe coinvolto Falcone. “In passato la maggioranza dell’opinione pubblica era assai ostile agli uomini in toga, spesso arroccati in una inaccettabile difesa dei loro interessi corporativi e non creduti neppure quando sostenevano che i politici volevano colpirli per motivi tutt’altro che nobili: svincolarsi da ogni controllo, impedendo ai magistrati di applicare la legge. Prendersela con i giudici, insomma, era politicamente redditizio. Oggi la situazione è radicalmente diversa...»