Le modalità di elezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Un argomento solo in apparenza da addetti ai lavori che, ciclicamente, torna ad essere oggetto di discussione.

Senza dover andare molto indie- tro nel tempo, l’ex premier Matteo Renzi, nelle oramai celebri slide con cui presentava il programma del suo governo nel febbraio del 2014, nel capitolo dedicato alla giustizia, fra le varie riforme, aveva previsto anche quella dell’organo di autogoverno delle toghe. Lo slogan scelto era di grande effetto: “chi nomina non giudica, chi giudica non no- mina”. Prevedere, quindi, una netta separazione fra i componenti del Csm chi si occupano di scegliere i capi degli uffici e quelli che devono valutarne le condotte sotto il profilo disciplinare. Dimessosi Renzi lo scorso dicembre, la riforma è rimasta nel cassetto. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel 2015, ha voluto intraprendere anche lui un percorso riformista sul tema, nominando una commissione ministeriale presieduta da Michele Vietti, l’ex vice presidente Csm. Il testo elaborato, che dovrà essere sottoposto al Parlamento, prevede blandi correttivi e non incide comunque sugli aspetti maggiormente critici.

In estrema sintesi, l’accusa che con sempre più frequenza viene mossa all’organo di autogoverno delle toghe è quella di essere nel suo operato fortemente condizionato dalle correnti della magistratura. Questi gruppi associativi, nati per essere un luogo di confronto fra le toghe con conseguente attività di elaborazione politico culturale, vengono accusati di essersi trasformati in centri di potere, che condizionano di fatto le scelte in tema di nomine dei direttivi o le decisioni sui provvedimenti disciplinari dei magistrati.

È sufficiente rileggere le cronache degli ultimi mesi per comprendere come dietro ogni nomina di peso ci sia quasi sempre uno scontro accesso fra i componenti togati, che talvolta sembra anche travalicare la naturale dialettica. L’ultimo caso ha riguardato la nomina di Giovanni Melillo a procuratore di Napoli.

In questo annoso dibattito si è inserito ieri Antonio Esposito, l’ex presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione che nel 2013 confermò la condanna per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset. Esposito, dalle colonne del Fatto di cui è fra gli editorialisti di punta in tema di giustizia, ha avanzato una proposta che, va detto subito, ha sollevato un coro di critiche da parte della maggioranza dei suoi ex colleghi.

La ricetta di Esposito per tagliare le unghie alle correnti è molto semplice: prevedere l’estrazione a sorte dei componenti togati del Csm. Visto che i magistrati non sembrano essere in grado di autogestirsi, cosa c’è di meglio che affidare la scelta dei componenti dell’autogoverno al fato?

Il ricorso alla dea bendata, che dovrà pescare sulle circa 10.000 toghe in organico, pare essere però una extrema ratio.

A bloccare sul nascere la proposta Esposito, un limite invalicabile: l’art. 104 della Costituzione il quale prevede espressamente che i componenti del Csm, sia laici che togati, vengano eletti.

Ciò impedisce in radice di ricorrere al sorteggio, anche fra un’eventuale rosa di candidati preselezionati. E poi c’è un aspetto pratico: tutti i 10.000 magistrati italiani sarebbero in grado di esercitare al meglio le funzioni di consigliere del Csm? Saper scrivere bene una sentenza può non essere sempre sinonimo di capacità organizzativa nell’ordinamento giudiziario.

I fautori della dottrina Esposito dicono che il sorteggio potrebbe avvenire solo sui magistrati che abbiano preventivamente dato la disponibilità ad essere sorteggiati. Una sorta di “autocontrollo” sulle proprie inclinazioni.

Questa discussione vede un parallelo con quella sulla rotazione degli incarichi direttivi. Tale proposta è stata recentemente avanzata dal giudice veronese Andrea Mirenda, noto per aver rinunciato nelle scorse settimane all’incarico di presidente della sezione fallimentare del tribunale di Verona come segno di protesta verso le recenti scelte “correntizie” del Csm.

In ogni caso, secondo il magistrato Piergiorgio Morosini, consigliere in carica del Csm eletto nella lista della corrente di Magistratura democratica, che ieri ha rilasciato un’intervista su questo giornale, bisogna evitare che i giudici “siano ossessionati dalla carriera, per la quale sono disposti a mettere da parte la loro indipendenza”.