Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993.

Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia.

Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno.

Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro.

A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella.

Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”.

Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia.

Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.