Quattordici anni di progetti, investimenti e business, di integrazione tra due sistemi economici: si tratta del Programma italo-cinese di cooperazione in materia ambientale, acronimo inglese “Sicp”. È durato dal 2000 al 2014, ha avuto un costo globale di circa 200 milioni di euro per il ministero dell’Ambiente e ha portato a decine di imprese italiane un ritorno in investimenti indiretti per 1 miliardo e 350 milioni. Una storia di successo che però ora la Corte dei Conti rilegge sotto una lente completamente negativa: in un procedimento aperto sul “Sicp” dai magistrati contabili, i giudizi sono tutti declinati sulla «assenza di trasparenza e di meccanismi di controllo nell’uso delle risorse». Oltre ad aprire la propria indagine, con l’ipotesi di danno erariale, la Corte dei Conti ha trasmesso le carte alla Procura di Roma affinché valuti eventuali responsabilità penali in capo ai coordinatori del progetto.Non è la prima volta che la magistratura, e quella contabile in particolare, apre un focus sulle attività del governo in materia di programmi internazionali, sulla politica industriale italiana all’estero. In casi come quello delle forniture militari di Finmeccanica al Brasile l’attività inquirente ha pregiudicato i progetti per poi perdersi in un nulla di fatto dal punto di vista processuale. Nella vicenda del Programma ambientale Italia-Cina gli elementi per un approfondimento erano disponibili: portano la firma della più importante agenzia mondiale di valutazione dei servizi professionali, la Pricewaterhousecoopers (PwC). È l’agenzia a cui si è affidata anche la Santa Sede per far revisionare i bilanci dello Ior. Il report compilato nel 2014 da PwC definisce «eccellente» il lavoro portato avanti dal governo italiano a partire dal 2000: «Si tratta di un caso di cooperazione bilaterale efficiente ed esemplare a livello internazionale sotto tutti i diversi aspetti: process management, realizzazione dei progetti preventivati, ottenimento dei risultati, impatto sociale ed ambientale, sostenibilità». Lo studio di 180 pagine dà grande risalto alla realizzazione del“Sino-italian Ecological & energy efficient building”, il palazzo di Pechino che è stato il cuore della cooperazione, progettato insieme con la più importante università cinese, la Tsinghua University. Nel mirino della magistratura contabile sono finiti aspetti illustrati sotto una luce positiva dal rapporto di PwC, come l’Ufficio unico di gestione del programma. Secondo la Corte dei Conti si tratta di una fonte di «dispersione e utilizzo illecito delle risorse», per l’agenzia il ricorso alla direzione centralizzata ha consentito «riduzione dei costi, alta efficienza, sostenibilità».Il programma - messo a punto e coordinato dall’allora direttore generale del ministero dell’Ambiente Corrado Clini, divenuto poi ministro - ha contribuito a far muovere passi in avanti alla Cina sulla strada di uno sviluppo ecocompatibile. E soprattutto ha coinvolto molte delle prime linee dell’imprenditoria italiana: da Guzzini a Merloni (Vittorio seguì la cooperazione personalmente) alla Iveco. La Corte dei Conti vi trova invece una storia tutta segnata dalla mancanza di «qualsiasi attività di monitoraggio e controllo sulla effettiva destinazione dei fondi e sul raggiungimento degli obiettivi». Se la mannaia dei magistrati si abbattesse sul progetto, il rischio è che ne possa derivare un forte segnale dissuasivo per le ambizioni espansive delle imprese italiane.