La Cassazione ha messo la parola fine. Con la sentenza numero 32376 del 15 luglio 2025, da poco depositata, la Prima Sezione penale ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia e stabilito in modo definitivo che il detenuto in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma, ha diritto ai colloqui intimi con la moglie. Non è una concessione, non è un privilegio: è un diritto costituzionale che lo Stato deve garantire. Punto.

Si chiude così, con un sigillo definitivo della Corte Suprema, una battaglia legale condotta dall'avvocata Pina Di Credico di Reggio Emilia che ha attraversato tutti i gradi di giudizio e che rappresenta un caso emblematico di come il diritto all'affettività intramuraria – riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza numero 10 del 2024 – stia faticosamente facendosi strada tra le resistenze dell'amministrazione penitenziaria.

La Cassazione smonta le tesi di via arenula

La sentenza, firmata dal presidente Filippo Casa e redatta dal consigliere Giorgio Poscia, non lascia spazio a interpretazioni. Il ministero della Giustizia aveva impugnato l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna dell'11 marzo 2025, sostenendo tre argomentazioni: l'inadeguatezza delle strutture penitenziarie, la pericolosità sociale del detenuto legata alla sua condanna per reati di stampo mafioso, e l'impossibilità di adeguare il carcere di Parma in soli sessanta giorni.

La Cassazione le ha bocciate tutte. Una dopo l'altra, con motivazioni che ridisegnano il confine tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali. Il cuore della decisione sta in un passaggio cristallino: i colloqui intimi “non sono una mera aspettativa”, ma costituiscono “una legittima espressione del diritto all'affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari”. Possono essere negati solo per ragioni concrete e specifiche: pericoli per la sicurezza, problemi di ordine e disciplina, comportamenti scorretti del detenuto o necessità giudiziarie per chi è ancora imputato.

Tutto il resto – le difficoltà logistiche generiche, la mancanza di linee guida, persino il passato criminale del detenuto – non basta. Perché quello che è in gioco, scrivono i giudici richiamando la Corte Costituzionale, è «la dignità della persona», che «lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare».

La contraddizione del Ministero sulla pericolosità del detenuto

C'è un passaggio della sentenza che suona come una sonora bocciatura. Il Ministero ha sostenuto che il detenuto – condannato per associazione camorristica, appartenente al clan dei Casalesi – rappresenta una “permanente pericolosità sociale”. Ma poi, contraddittoriamente, suggerisce che “sarebbe stato logico concedere un permesso premio” al detenuto, visto che sta per terminare di scontare la pena (fine pena novembre 2026).

La Cassazione non ha bisogno di alzare la voce: “Il ricorrente non contesta in modo specifico le valutazioni del Tribunale di Sorveglianza circa l'assenza di motivi ostativi, anzi giungendo ad auspicare, in modo contraddittorio, la concessione di un permesso premio, che però ha come presupposto l'assenza di pericolosità sociale”. Tradotto: se non è pericoloso per uscire dal carcere con un permesso premio, come può essere troppo pericoloso per un colloquio intimo con la moglie dentro il carcere, sotto controllo dell'amministrazione?

I giudici sottolineano un elemento decisivo: il recluso, in tredici anni di detenzione, ha mantenuto una “regolare condotta costantemente serbata”. Lavora in carcere, versa regolarmente somme ad associazioni dedicate alle vittime della mafia, partecipa a un percorso spirituale con i Testimoni di Geova. Il Tribunale di Sorveglianza aveva evidenziato l’“assenza di concreti elementi a conferma della sua attuale pericolosità”, ricordando che svolge colloqui regolari con la moglie da anni, senza mai creare problemi. Eppure, per il Ministero, tutto questo non contava. Contava solo il passato, la condanna, l'appartenenza al clan. La Cassazione riporta le cose al loro posto: il cambiamento, quando è autentico e documentato, va riconosciuto.

Sull'inadeguatezza delle strutture, la Cassazione è netta: le difficoltà “risultano generiche, non contenendo alcun concreto richiamo alla situazione esistente presso il carcere di Parma”. E ricorda che l'11 aprile 2024 lo stesso Dap ha emanato linee guida operative per dare attuazione al diritto all'affettività. Un'ammissione implicita: le condizioni per applicare la sentenza ci sono.

Una lunga battaglia durata più di un anno

Tutto era iniziato nel marzo 2024, quando il detenuto, attraverso l'avvocata Di Credico, aveva presentato la richiesta di colloqui intimi. La direzione del carcere aveva opposto un diniego: mancanza di linee guida e pericolosità del detenuto. Il 7 febbraio 2025, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, aveva accolto il reclamo ordinando di consentire i colloqui entro sessanta giorni. Ma il Dap non si era arreso. Prima un'istanza di sospensiva, poi un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, con l'appoggio della Procura di Reggio Emilia. A sostegno, una nota della Dda di Napoli che però non riportava alcuna indagine attuale nei confronti del recluso. Solo il passato.

L'11 marzo 2025, il Tribunale di Bologna – presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini – aveva respinto il reclamo con un'ordinanza di dodici pagine. Il cuore della motivazione stava nella distinzione tra pericolosità interna ed esterna. La prima riguarda il rischio dentro il carcere, la seconda i legami con la criminalità fuori. Quest'ultima è rilevante per i permessi premio, non per i colloqui intimi all'interno della struttura.

L'avvocata Di Credico aveva commentato: «Ho chiesto esplicitamente di distinguere la “pericolosità interna” dalla “pericolosità esterna”. I colloqui intimi avvengono dentro il carcere, dove occorre verificare solo che non costituiscano un pericolo per la sicurezza del penitenziario». Il Tribunale aveva recepito in toto le sue valutazioni. Nonostante tutto, il Ministero aveva fatto ricorso in Cassazione. Ma la Corte Suprema ha chiuso definitivamente la partita. Il ricorso è infondato, il diritto all'affettività va garantito.

Ora, al Dap e alla direzione del carcere di Parma non resta che eseguire. Il detenuto potrà finalmente incontrare la moglie in condizioni di intimità. Un diritto che la Costituzione gli riconosce, che la Corte Costituzionale ha sancito, che i giudici di merito hanno applicato e che la Cassazione ha confermato. Dietro questa vicenda c'è la storia di un detenuto che ha scontato tredici anni mantenendo una condotta irreprensibile. C'è il lavoro ostinato di un'avvocata che non si è arresa. E c'è, soprattutto, un principio fondamentale: il carcere non è una condanna all'oblio degli affetti.

La dignità umana non si sospende varcando la soglia di un istituto penitenziario. La Cassazione lo ha ribadito con chiarezza: l'affettività è un diritto, non un'aspettativa. E nessuna scusa burocratica, nessun appello generico alla sicurezza, nessuna etichetta del passato può giustificarne la negazione. Altrimenti, il richiamo ai principi costituzionali diventa solo un inutile esercizio di retorica.