La procura generale di Palermo non si arrende. Nonostante le due assoluzioni del processo stralcio sulla presunta trattativa Stato-Mafia nei confronti dell’ex democristiano Calogero Mannino, i procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno fatto ricorso in cassazione. Ora, quindi, quest’ultima dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità o meno del ricorso. Da ricordare che Mannino era stato giudicato da solo, in abbreviato, ed era stato scagionato sia in primo grado, dal Gup Marina Petruzzella, il 4 novembre 2015, che in secondo, il 22 luglio 2019. In 1.053 pagine, depositate il mese scorso, il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e la relatrice Maria Elena Gamberini, ha letteralmente smontato la tesi accusatoria. Non solo Mannino non ha commesso il fatto, ma è proprio il fatto stesso a non essere mai avvenuto. La versione dell’accusa è nota. L’iniziativa dei Ros avuta nei confronti dell’ex sindaco di Palermo “Don” Vito Ciancimino sarebbe stata, a differenza di quanto da loro sostenuto, non autonoma e non eminentemente volta a catturare i latinanti mafiosi, bensì indotta dall'allora ministro per gli interventi straordinari per il mezzogiorno Calogero Mannino, consapevole di essere nel mirino della mafia in ragione della responsabilità attribuitagli da mafiosi di non saper rispettare i patti e del catastrofico risultato conseguito in Cassazione nel maxiprocesso. Per di più l'interessamento dei due ufficiali del Ros sarebbe stato diretto a favorire i personali interessi egoistici di tipo politico di Mannino, aspirante a prendere possesso della posizione all'interno della DC lasciata libera dalla morte di Lima, Il più potente andreottiano in Sicilia. Detta trattativa sarebbe sfociata nella presentazione da parte di Riina del famigerato "papello", che, come è noto, è stato fornito materialmente da Massimo Ciancimino (poi rivelatosi un falso) in copia agli stessi Pm nell'ottobre del 2009, ed in cui si riassumevano in dodici punti le richieste di benefici per Cosa nostra. Ma il fulcro della “trattativa” è stato scrupolosamente smontato dai giudici che hanno assolto Mannino. Quando nel '92 imperversava l'attacco stragista deliberato dai capi corleonesi di Cosa nostra, dopo che era stato consumato l'omicidio di Salvo Lima e anche la strage in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone, il capitano De Donno e il suo superiore colonnello Mori pensarono di andarsi a rivolgersi al politico mafioso corleonese Vito Ciancimino, i cui affari e storici legami con Riina e Provenzano erano ad essi noti in ragione della loro professione. I due ufficiali proposero a Ciancimino una interlocuzione diretta alla cattura dei latitanti. Tale colloquio con Vito Ciancimino nacque da una spontanea e indipendente iniziativa dei Ros e fu abortita sul nascere, essendosi interrotta in uno stadio in cui si era arrivati a discutere con Ciancimino della mera ipotesi di un contatto con i capi corleonesi, e avrebbe avuto come reale finalità l’acquisizione di informazioni utili al progresso delle indagini, la cattura dei grossi latitanti, senza alcuna concessione o compromesso con l'organizzazione criminale. Tale iniziativa, in realtà, era il segreto di pulcinella. Secondo i giudici che hanno assolto Mannino, dei contatti tra i Ros e Ciancimino ne erano a conoscenza lo stesso Borsellino, la dottoressa Liliana Ferraro e anche Luciano Violante. Senza contare che nel 1993, appena se ne andò l’allora capo procuratore Pietro Giammanco, di questi contatti ne venne a conoscenza anche la Procura di Palermo. Interessante l’intervento dell’avvocata Rosala Di Gregorio, ora legale di parte civile nel processo sul depistaggio che si sta celebrando a Caltanissetta: “E' legittimo fare il ricorso in Cassazione, ma nessuno venga più a parlare di processi lunghi, di eliminazione di gradi di giudizio e altre baggianate simili. O vogliamo dire che i tre gradi sono solo prerogativa dell’accusa e fanno perdere tempo e denaro solo se li fa la Difesa?”.