Gli ex magistrati Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte sono da poco in libreria con La giustizia conviene Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età (Piemme Editore, pagine 221, euro 16,50). Il contesto è quello in cui “giustizia e legalità fanno sempre più fatica ad assolvere ai propri compiti, ovvero garantire i diritti dei cittadini e il rispetto delle regole della convivenza civile”. Molteplici, per gli autori, le cause di questo scenario: un processo “farraginoso e incomprensibile”, “una vischiosa rete di relazioni torbide culminate nei casi tristemente noti del magistrato Palamara e dell'avvocato Amara”, episodi di “diritti calpestati”. Per fronteggiare tutto questo, secondo Caselli e Lo Forte, non bastano lo sdegno e la denuncia, bisogna credere e difendere la giustizia e la legalità, che rappresentano un bene comune. Ma prima di tutelare entrambe, occorre conoscerle, nei loro pregi e nei loro difetti applicativi. «Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare». Nella più famosa delle sue Prediche inutili Luigi Einaudi poneva una domanda che ancora oggi è fondamentale: «Come si può deliberare senza conoscere?». Ed è anche un po' questo, a parere di chi scrive, il compito che il libro di Caselli e Lo Forte vuole assegnare a tutti noi, ragazzi e adulti. Non essere indifferenti ai temi della giustizia per acquisire quella consapevolezza atta a farci interpretare correttamente la realtà e a decidere pure da che parte stare, motivando razionalmente la nostra posizione. Ad esempio in tema di carcere, di immigrazione, di contrasto alle mafie. In un periodo storico in cui si tende a semplificare i fenomeni, è invece importante capirne la complessità. Scrivono, ad esempio, gli autori: “È innegabile che vi sia un diritto alla sicurezza. Il tema è decisivo, ma non può essere esclusivo, pena il rischio che i diritti diventino ostaggio della sicurezza fino a giustificare il ricorso a un uso spropositato e illusorio della legge penale, considerata "cinicamente come un mezzo a basso costo per tranquillizzare la paura prima ancora che neutralizzare rischi, pericoli ed eventi lesivi". In questo contesto ecco l'equiparazione dei poveri, dei neri e degli immigrati ai delinquenti, le eterne 'classi pericolose' dalle quali occorre proteggere la "gente per bene"; ecco che vengono varate norme manifesto, misure che sembrano destinate a produrre soltanto effetti psicologici e di scarsa efficienza, e invece alterano progressivamente il sistema della garanzie”. Come non essere d'accordo? Lo stesso vale per il capitolo sul carcere: “Si tratta piuttosto di concepire la pena detentiva davvero come extrema ratio. Come? Per esempio organizzando le misure alternative al carcere secondo modalità praticabili che rispondano realmente al bisogno concreto di sicurezza. Con la prospettiva che alla fine maturino tempi e condizioni perché il carcere possa non rappresentare più il luogo centrale del sistema sanzionatorio”. Ciò nonostante gli autori criticano però “la demolizione dell'ergastolo ostativo”, in corso grazie - diciamo noi - a sentenze sovranazionali e della Corte Costituzionale. Non condividiamo neanche l'approccio relativo alla dialettica tra giustizialisti e garantisti. Per Caselli e Lo Forte contro l'indipendenza del magistrato arrivano le accuse di politicizzazione o di “giustizialismo”, una parola “astutamente riciclata con la cinica finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove esercitare la giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizialismo”. In realtà, quando si criticano gli approcci “giustizialisti” della politica e della magistratura si fa riferimento, volendo fare una breve e sommaria elencazione certamente non esaustiva, a una concezione etica e non laica del processo, alla revisione in senso inquisitorio del codice di rito, ai doppi binari processuali, alla legislazione di emergenza, all'opposizione alla prescrizione, al ruolo, per molti versi improprio ed abnorme, assunto dal pubblico ministero a scapito del giudice. Un capitolo del libro è dedicato all'avvocatura che, come vi raccontiamo spesso da queste pagine, è presa di mira quando ci si trova a difendere i peggiori criminali. Ma proprio Caselli e Lo Forte, i quali nella loro lunga carriera hanno incontrato e combattuto i più pericolosi banditi, ricordano un principio fondamentale: “Un processo senza difensori in democrazia non è neppure concepibile; sarebbe una farsa”. Sembra quasi di rileggere il famoso avvocato siracusano Ettore Randazzo che in L'avvocato e la verità (Sellerio Editore) scriveva: “solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l'avvocatura”. La figura del difensore è inserita nel più ampio spazio dedicato alle figure e ai tempi che contraddistinguono il processo. Gli autori, infatti, nel ripercorrere, ovviamente in chiave divulgativa e non tecnica, la storia della prescrizione e della nuova improcedibilità non possono non fare a meno di evidenziare un male di cui soffriamo, ossia la denegata giustizia, frutto di un “arretrato di milioni di processi, civili e penali, accumulatosi per anni”. Una soluzione proposta dagli autori sarebbe quella di “abolire l'assurdo retaggio di un passato ormai remotissimo, il cosiddetto divieto di reformatio in pejus, grazie al quale se a ricorrere è soltanto l'imputato non rischia assolutamente nulla, perché è vietato peggiorare anche di un solo giorno o di un solo euro la condanna già inflitta. Comodo, no? Al punto che per l'imputato non ricorrere è masochismo”. E tuttavia, come ricordò il professor Giorgio Spangher in una intervista al nostro giornale, «nemmeno il fascismo riuscì a eliminare il divieto di reformatio in peius e l’appello, che sono alla base della nostra cultura giuridica». A proposito di fascismo, gli autori nel capitolo “Magistratura ieri e oggi” riportano alla memoria un interessante episodio: “Il passaggio dal fascismo alla democrazia è avvenuto all'insegna della continuità. A parte la rifondazione dell'Anm, i segnali normativi e politici di novità nel settore giustizia sono stati pochi, per di più segnati dalla mancanza di un significativo rinnovamento personale e di mentalità. Tra i magistrati compromessi col regime, che tuttavia riuscirono a fare prestigiose carriere, meritano una segnalazione speciale l'ex procuratore generale della Repubblica di Salò Luigi Oggioni e l'ex presidente del tribunale della razza Gaetano Azzariti, che raggiunsero addirittura la presidenza della Corte di Cassazione e quella della Corte Costituzionale”.