Aumentano i casi pendenti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu). Di particolare rilievo si segnalano i ricorsi in materia di applicazione di misure di sicurezza detentive nei confronti di soggetti affetti da infermità psichica. Aumento anche le azioni di rivalsa, visto che a causa della crisi pandemica e non solo, mancano i soldi per pagare le condanne. Parliamo della relazione che permette al Parlamento di avere un quadro sulle inadempienze dell’Italia e sulla necessità di modifiche legislative alle quali, però, non sempre si dà seguito. Come detto, tra i ricorsi pendenti dinanzi alla Corte europea che meritano di essere segnalati in ragione della rilevanza e della natura della materia trattata, della loro incidenza numerica sul totale dei casi e dell’interesse che potrebbero dispiegare anche in futuro, ci sono quelli in materia di applicazione di misura di sicurezza detentive nei confronti di soggetti affetti da infermità psichica, ovvero il mancato ricovero presso le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems).

Lo Stato italiano ha violatogli articoli della Convenzione Cedu

Dalla relazione annuale al Parlamento, si apprende che la Cancelleria della Cedu ha comunicato al governo i ricorsi n. 11791/20 Seydou c. Italia e n. 42627/20 Preuschoff c. Italia con i quali i ricorrenti hanno lamentato la violazione da parte dello Stato italiano degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti) e 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza personale e diritto ad un’equa riparazione) della Convenzione chiedendo altresì, ai sensi dell'articolo 39 del Regolamento della Corte, l’adozione in via cautelare di misure urgenti dirette a tutelare a loro integrità psico-fisica.

La difficoltà di ricoverare i soggetti con gravi condizioni psichiatriche

Entrambe le vicende traggono origine alla difficoltà – fondamentalmente per profili disfunzionali organizzativi - di dare tempestiva esecuzione alle misure di sicurezza detentive disposte dall’autorità giudiziaria nei confronti dei ricorrenti, soggetti socialmente pericolosi dichiarati incapaci di intendere volere a causa di gravi condizioni psichiatriche, mediante ricovero presso una Rems. La scarsezza di posti disponibili nelle suddette residenze ha determinato la situazione di fatto dedotta dinanzi alla Corte europea dai ricorrenti, che al momento del deposito delle loro domande si trovavano ancora detenuti presso strutture carcerarie ordinarie. Nel comunicare i ricorsi, la Corte ha sottoposto al governo una serie di quesiti, volti, in particolare, a chiarire se le autorità abbiano adottato tutte le misure necessarie per tutelare il diritto alla vita dei ricorrenti, se siano stati loro garantiti trattamenti medici adeguati durante la permanenza in carcere e se le condizioni di detenzione del ricorrente fossero conformi al loro stato di salute.

Le Rems non appaiono in grado di far fronte alle necessità del sistema

Le Rems, strutture destinate all’accoglienza e alla cura degli autori di reato affetti da disturbi mentali ritenuti socialmente pericolosi alla luce dei criteri delineati dall’articolo 133 c.p., sono state introdotte per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) soppressi dalla legge n. 9 del 2012 e dalla legge n. 81 del 2014. Le nuove residenze si fondano sui principi della territorializzazione della sanitarizzazione, nel senso che le Rems sono destinate ad accogliere, di regola, soggetti provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle stesse e sono chiamate a svolgere eminentemente funzioni terapeuticoriabilitative, orientate a dare effettiva prevalenza al profilo della cura rispetto a quello della custodia, ragione per la quale il legislatore ha deciso di sottrarle dal circuito penitenziario affidandone la gestione al sistema sanitario regionale, all’interno del quale operano i servizi territoriali dei Dipartimenti di salute mentale, responsabili della presa in carico e degli interventi terapeutici. Tuttavia, le strutture, organizzate come presidi di tipo sanitario, non appaiono in grado di far fronte in tempo reale con i posti disponibili alle concrete necessità del sistema, con la conseguenza che soggetti psichiatrici, come i ricorrenti, si trovano di fatto a permanere in carcere. Nel comunicare i ricorsi, la Corte ha sottoposto al governo una serie di quesiti, volti, in particolare, a chiarire se le autorità abbiano adottato tutte le misure necessarie per tutelare il diritto alla vita dei ricorrenti, se siano stati loro garantiti trattamenti medici adeguati durante la permanenza in carcere e se le condizioni di detenzione del ricorrente fossero conformi al loro stato di salute. Con riferimento ai ricorsi pendenti dinanzi alla Corte di Strasburgo, il governo ha ritenuto di esprimere avviso favorevole alla definizione non contenziosa dei casi, formulando proposte di regolamento amichevole. Resta però il fatto che il problema rimane, e i ricorsi sono in continuo aumento.

Il ricovero nelle Rems sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio

Che fare? Il problema è da ridursi all’insufficienza dei posti delle Rems? La scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli Opg, secondo cui il ricovero in Rems sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi Opg. Il problema è la previsione normativa del principio della Rems come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali: nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in Rems, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione. Altra criticità è ben argomentata nel penultimo rapporto di Antigone: gli operatori della salute mentale che lavorano nelle Rems, segnalano una crescente presenza dei c.d. “cripto-imputabili”, cioè di persone che non presenterebbero gravi patologie psichiatriche, ma problematiche diverse e non strettamente sanitarie (dipendenza da sostanze, marginalità sociale, biografie criminali) che vengono comunque ricoverate in Rems, eludendone la funziona terapeutico-riabiliativa. Antigone ha sottolineato che si tratta di un effetto collaterale della bulimia diagnostica che ha segnato gli ultimi decenni di sviluppo della psichiatrica, raggiungendo il suo apice nell’ultima versione del manuale diagnostico internazionalmente riconosciuto (DSM V), ove sono indicate un numero di patologie e disturbi psichiatrici mai così grande. La questione dei cripto-imputabili chiama direttamente in causa il ruolo dei periti e dei consulenti tecnici, che, in sede processuale, devono pronunciarsi sulla capacità di intendere e volere della persona: al loro sapere esperto si “affida” infatti il giudice per decidere se la persona presenti un “vizio di mente” o meno. Per minimizzare la questione dei cripto-imputabili, molto sentita dagli operatori delle Rems, secondo Antigone occorre arrivare ad un bilanciamento tra diritti procedurali e questioni operative: «E’ auspicabile che i periti, tramite il giudice, entrino in contatto fin dall’affidamento della questione peritale con gli operatori della salute mentale affinché prospettino soluzioni trattamentali condivise, che non vengano “calate dall’alto” dei servizi di salute mentale solo al momento della sentenza?», chiosa l’associazione.