«Al femminile non c’è possibilità di usufruire del teatro, non c’è possibilità di fare corsi di musica, visto che gli strumenti sono solo al maschile. L’area adibita all’aria non ha palloni utilizzabili… e non dà alcuna possibilità di svolgere attività sportive. L’area educativa esiste solo al maschile e le detenute sono prive di educatori stabili», così scrive una detenuta del carcere di Como al difensore civico di Antigone. E riceve ogni anno lettere con domande e dubbi di donne detenute in diversi carceri o reparti del Paese. Così si legge nel primo rapporto dell’associazione di Antigone sulle condizioni delle recluse in carcere.

Come già scritto ieri su Il Dubbio, il basso numero di detenute in Italia (circa il 4% del totale) non consente di garantire che le donne siano confinate vicino alle loro case. Ciò si traduce in una situazione in cui le donne possono essere detenute in reparti di carceri maschili, più vicine ai loro luoghi di residenza, o in carceri femminili che spesso si trovano a grande distanza da casa, poiché ce ne sono pochissime. Sempre nel rapporto di Antigone, è significativa un’altra lettera di una detenuta del carcere di Latina: «Non faccio colloqui con mia madre dal 20.12.2019. Non ho più il papà e mia madre non ce la fa a venire sia per problema di salute sia per problema economici. È vero che io ho sbagliato, ma mia madre che colpa ne ha?

Il mio percorso non è servito a niente? Non ce la faccio più, sto male, questo distacco è troppo». Anche dal carcere di Messina si fanno carico di quanto sia dolorosa questa realtà, soprattutto quando sono madri: «tante mamme – scrive al difensore civico di Antigone - lontano dai propri figli, da Napoli, Roma, Puglia e sono stati trasferiti qui su un’isola? I disagi vengono creati alle famiglie e ai tanti bambini che sono privati d’avere contatti da vicino con le proprie mamme». E la realtà dei figli e delle figlie che risentono della difficoltà dell’assistenza diretta e la “colpa” per l’abbandono è un altro motivo di angoscia e dolore permanenti.

Un altro aspetto, del tutto trascurato, è ben riportato da Cristiana Taccardi nel rapporto di Antigone. Sottolinea come, tra le donne autrici di reato, qualsiasi indagine svolta ha infatti evidenziato la massiccia presenza di esperienze di pregressa vittimizzazione che sono state, in modo diretto o indiretto, all’origine del reato realizzato. È emblematico in tal senso che nel 2022 ben 5 donne si siano tolte la vita in carcere.

Sempre nel medesimo rapporto di Antigone, si sottolinea che rispetto al contesto italiano, poche indagini approfondiscono l’ormai assodato legame tra vittimizzazione e detenzione femminile. Chiara Carrozzino di Antigone dedica invece un interessante ed elaborato capitolo dedicato alle donne recluse in Alta sicurezza (AS) e al 41 bis. Secondo quanto rilevato dall’ultima osservazione svolta, attualmente le donne al 41 bis sono pari a 12, tutte detenute presso l’istituto penitenziario presente all’Aquila. Questo numero esiguo non si discosta dai dati rilevati negli ultimi anni: i dati disponibili a novembre 2020 hanno indicato un totale di 748 persone sottoposte al regime di cui all’art. 41 bis o. p.: 731 uomini e 13 donne, oltre a 4 internati. Ed ancora la “Relazione sull’amministrazione della giustizia” pubblicata dal Ministero della Giustizia il 25 gennaio 2022, ha rappresentato come al 31 ottobre 2022 i detenuti sottoposti al 41- bis ammontavano a 728: 12 donne e 716 uomini; quindi, appena l’ 1,3 per cento della popolazione presente negli istituti penitenziari.

Oltre alle sezioni AS, sono presenti anche alcune sezioni “Z”, destinate ad ospitare donne collaboratrici di giustizia o comunque legate a collaboratori di giustizia. Sono ovviamente poche e le sezioni sono tre. Risultano completamente separate rispetto alle altre e costringono chi le occupa ad un regime che comporta molti limiti. Ed infatti - come spiega Carrozzino nel rapporto di Antigone -, l’esiguità del numero dovrebbe far riflettere sulla solitudine che tale stato porta. Una solitudine obbligata.