Si può finire in un vortice giudiziario. E viverne l’incubo in tutte le sue tortuose mostruosità. Se si vede riconosciuta la propria innocenza si viene ripagati. Ma ci sono casi in cui anche la Giustizia con la “G” maiuscola può non bastare. E l’iniziale errore di un magistrato inquirente continua a pesare sull’esistenza della vittima anche dopo l’assoluzione. La storia di Francesco Raiola corrisponde a questo tremendo paradigma. Militare dell’Esercito per 7 anni fino al 2011, dopo essere stato impiegato per missioni a rischio in Afghanistan e Kosovo, questo servitore dello Stato originario di Pompei ora deve fare i conti il ministero della Difesa, che non intende restituirgli il posto in graduatoria occupato al momento in cui partì a suo carico un’insussistente indagine penale. Francesco non può dunque riavere il suo lavoro nell’Esercito. Secondo il ministero attualmente affidato a Roberta Pinotti, non ci sarebbe modo di riassumerlo, visto che al momento della sospensione decisa poco dopo l’arresto di fine 2011, l’allora caporal maggiore non aveva ancora “firmato”.

Serviva lo Stato da anni, sebbena da “precario”. Aveva vinto però un concorso. In base alla graduatoria l’assunzione a tempo indeterminato gli sarebbe spettata di diritto. Si trattava di attendere il decreto che avrebbe consentito a Raiola di sottoscrivere la “ferma” definitiva. Secondo il ministero «tra l’interessato e l’amministrazione della Difesa non si era costituito alcun rapporto di servizio». Ma quell’assunzione sarebbe arrivata in poche settimane, se nel frattempo sul capo di Francesco non fosse caduta un’assurda accusa di traffico di stupefacenti e l’onta dell’arresto. Lo Stato non riconosce l’errore. Non reintegra una sua vittima. E lo sottopone dunque a una seconda, folle ingiustizia. Non valgono niente sette anni di impiego nelle Forze armate, una parte dei quali trascorsi nei teatri di guerra, alla mercé delle contaminazioni da uranio costate a Francesco un tumore. Non è servita neppure l’interrogazione parlamentare presentata lo scorso 28 luglio da un senatore del Nuovo centrodestra, Giuseppe Esposito, con cui si chiedeva il «reintegro in servizio nella posizione e nelle condizioni che gli sarebbero spettate e che gli sono state negate a causa di un errore dello Stato». Non si è aperta alcuna breccia nel muro della burocrazia. Eppure di “errore giudiziario” si è trattato, in modo evidente, tanto che Raiola si è già visto riconoscere un risarcimento di 41mila euro per ingiusta detenzione.

L’odissea di Francesco, raccontata dal Dubbio lo scorso 6 agosto, inizia il 21 settembre del 2011, quando viene arrestato nella caserma di Barletta in esecuzione di una misura cautelare ordinata nell’ambito di un’indagine su un traffico di droga. A rovinare Francesco è una serie di conversazioni telefoniche intercettate e clamorosamente fraintese, in cui promette a dei commilitoni di portar loro, dalla sua Pompei, prima «mozzarelle» e poi «un televisore». Secondo gli inquirenti si tratta di parole in codice dietro cui si celano cospicue partite di stupefacenti. A condurre l’inchiesta è la Procura di Torre Annunziata, all’epoca guidata da Diego Marmo. Ebbene sì, proprio l’accusatore di Tortora, che di lì a poco avrebbe chiesto scusa alla famiglia di Enzo ma che intanto ha trovato il modo di perseguire un altro innocente. Francesco impiegherà ben 4 anni prima di trovare un magistrato abbastan- za scrupoloso da riconoscere la sua innocenza. Sarà un giudice per l’udienza preliminare di Nocera Inferiore, dove intanto il procedimento era stato trasferito, a stabilire nell’aprile 2015 il «non luogo a procedere perché il fatto non sussiste». Sembra finito l’incubo, Francesco sogna che oltre all’onore gli possa essere restituito anche il lavoro. Ma il ministero della Difesa cavilla: non gli riapre le porte perché, come ha sostenuto il sottosegretario Domenico Rossi nella risposta all’interrogazione di Esposito è tutta colpa dell’innocente: «Non ha fatto appello al Consiglio di Stato».

Dopo essere stato sospeso in effetti nel gennaio del 2012, Raiola si rivolse al Tar del Lazio, che respinse il suo ricorso visto che si trovava ancora nella condizione di indagato. Secondo il ministero, Raiola avrebbe dovuto dar fondo a risorse finanziarie di cui al’epoca, da disoccupato, non disponeva, per proporre un’ancora più costosa impugnazione al Consiglio di Stato – altri 7mila euro almeno – senza alcuna certezza di ottenere una sentenza favorevole. «Avevo già speso migliaia di euro, non potevo permettermi un altro ricorso», spiega. Secondo l’Amministrazione, a sbagliare è stato lui che non ha impugnato la decisione del Tar. Non la Procura di Torre, dunque lo Stato, a indagarlo per mozzarelle e televisori che non erano partite di coca ma davvero mozzarelle e televisori. Il sottosegretario Rossi ha ricordato che quando «il contraente» è inserito in una graduatoria che gli dà diritto all’assunzione definitiva, è necessario che «abbia e mantenga i requisiti di moralità previsti dal legislatore». Parole che alludono con fredda spietatezza al decreto legislativo 165 del 2001 e che suonano come una beffa di Stato.

Francesco si è sempre dimostrato moralmente irreprensibile. La disciplina che regola tra l’altro le condizioni per essere assunti dalla pubblica amministrazione non è in grado evidentemente di prevedere un caso pazzesco come questo, in cui i requisiti di moralità vengono persi per errore di quello stesso Stato che avrebbe dovuto onorare l’impegno ad assumere il soldato Raiola.

Il sottosegretario ha in realtà provato, nella risposta al senatore Esposito, a lasciare aperto uno spiraglio: si è impegnato a nome del ministro Pinotti a «esaminare eventuali ulteriori prospettazioni anche per valutazioni più complessive di tali fattispecie compatibili con l’ordinamento militare». L’unica realistica possibilità resta la revoca della sentenza del Tar, per la quale Raiola ha già avviato l’iter. Suonerà sempre fin troppo tardiva rispetto a una feroce ingiustizia che continua a perpetrarsi da cinque lunghissimi anni.