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Il processo d’appello per la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega «sarà verosimilmente celebrato a porte chiuse»: è quanto ha risposto il presidente della prima Corte d’assise di appello di Roma alla nostra richiesta di essere accreditati all’udienza del 10 febbraio prossimo. Le ragioni addotte sono di carattere sanitario: «L’aula non consente presenze superiori a 30-35 unità, compresi i componenti del collegio giudicante», che si vanno quindi a sommare ai due imputati Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, ai quattro loro avvocati, all’interprete, alle parti civili e al procuratore generale; non ci sono né una uscita di sicurezza né finestre che consentano un ricambio d’aria. Dunque «risulta evidente - si legge nel provvedimento - la sussistenza di esigenze di pubblica sicurezza generale (in caso di necessità i tutori dell’ordine devono poter intervenire con assoluta tempestività senza essere ostacolati da intralci o assembramenti) e di esigenze di pubblica sicurezza sanitaria collegate direttamente al rispetto delle norme in vigore per la prevenzione della diffusione del virus Covid 19 e delle sua varianti». Comprendiamo le necessità legate all’emergenza sanitaria, ma dall’altra parte riteniamo che non si possano spegnere i riflettori su un processo così delicato e che ha avuto una vasta eco, non solo in Italia: due giovani sono stati già condannati, in primo grado, all’ergastolo, noi stessi abbiamo sollevato il rischio di una lettura non serena del materiale probatorio. Non vorremmo che, accanto alle legittime ragioni epidemiologiche, si determinasse un quadro tale da far calare inevitabilmente l’oblio su questo processo. Già durante il primo grado noi della stampa abbiamo avuto delle difficoltà, tanto è vero che il Sindacato Cronisti Romani, nel chiedere l’accesso in aula a tutti i giornalisti, si era lamentato del fatto che, subito dopo le prime udienze, la presidente della prima Corte d’assise aveva «cercato di ridurre al massimo la presenza delle telecamere», di limitare le autorizzazioni «alla Rai, alla Associated Press, poi alla Cnn, che avrebbero dovuto cedere le immagini a tutti gli altri. Ignorate le reiterate richieste di France Presse che ha 5000 clienti in tutto il mondo. La vicenda dell’uccisione del vicebrigadiere è piena di punti oscuri e verità più volte modificate». Non si registra ancora una presa di posizione dell’Ordine dei giornalisti, della Federazione nazionale Stampa Italiana e dell’Associazione Stampa estera. Ma abbiamo raccolto informalmente il malumore di molti colleghi delle testate statunitensi, che ritengono grave questa decisione. L’avvocato Francesco Petrelli, co-difensore insieme a Fabio Alonzi di Gabriel Natale Hjorth, invece ci dice: «Noi siamo i primi a pretendere che su questo processo, come su tanti altri, ci sia la possibilità di un controllo diretto da parte della stampa, che rappresenta uno strumento democratico fondamentale, per cui noi siamo assolutamente favorevoli affinché si trovino delle soluzioni adeguate sotto il profilo strutturale per contemperare esigenze, di salute e di informazione, che sono entrambe importanti». Dello stesso parere l’avvocato Giuseppe Belcastro, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali: «Le ragioni alla base del provvedimento del presidente sono sicuramente condivisibili data la situazione. Occorre ora però trovare una soluzione, un equilibrio tra le diverse istanze, perché la pubblicità del processo è uno dei cardini della trasparenza processuale». Il diritto a un processo pubblico, ci spiega l’avvocato Nicola Canestrini, referente nazionale per l’Italia del Legal Experts Advisory Panel (Leap) di Fair Trials International che tutela il diritto ad un processo equo per ogni accusato, è tutelato anche in sede internazionale: «La giustizia segreta è tipica dei sistemi dittatoriali, non di uno Stato di diritto. La pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, ossia l’equo processo». Quali potrebbero essere le soluzioni? Ci permettiamo di suggerirne un paio: prevedere all’interno della cittadella giudiziaria una sala stampa dove poter seguire il processo su uno schermo che mostri cosa accade in aula; concedere a Radio Radicale il permesso, non solo di registrare come avvenuto per il primo grado, ma anche di trasmettere la diretta dell’udienza in modo da poterla seguire addirittura dalle redazioni senza creare assembramenti in Corte. La soluzione di far accedere solo alcune testate ci sembrerebbe invece discriminatoria, perché ogni giornalista conosce e interpreta a suo modo il processo e raccontarlo con il filtro di un collega non sarebbe opportuno. Conosciamo il presidente Calabria: abbiamo apprezzato il suo coraggio nell’emettere una sentenza impopolare nel caso della morte di Marco Vannini: derubricò il reato da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo con l’aggravante della colpa cosciente, condannando Antonio Ciontoli a 5 anni invece che a 14, in un clima dentro e fuori l’aula altamente colpevolista. Quando lesse la sentenza gli urlarono contro, e solo per aver preteso silenzio e rispetto subì un accertamento disciplinare da parte dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Il clima è lo stesso anche ora: il popolo grida vendetta. Ma auspichiamo che anche questa volta il presidente faccia rispettare le regole di un giusto processo, a partire dalla pubblicità delle udienze. Questo processo va raccontato.