L’intervento più sbagliato e controproducente, dopo la tragedia di Milano e del detenuto Emanuele De Maria omicida-suicida, sarebbe quello del ministero. Sarebbe un errore qualunque sanzione nei confronti dei giudici o della direzione del carcere di Bollate, l’istituto di pena che vanta il più basso tasso di recidiva di reati d’Italia.

Sarebbe un pessimo segnale perché, come hanno detto, affranti nel partecipare «al dolore delle vittime e dei familiari», il presidente della Corte d’appello di Milano Giuseppe Ondei e la presidente facente funzioni del tribunale di sorveglianza Anna Maria Oddone, tutta la vicenda ha avuto un esito che nessuno avrebbe potuto prevedere.

Perché tutto il percorso carcerario di Emanuele De Maria è stato perfetto e impeccabile, tanto da meritare relazioni positive di ogni operatore penitenziario, dallo psicologo all’educatore, fino alla direzione del carcere e ai giudici del tribunale di sorveglianza. Un percorso tipico dei migliori risultati del carcere di Bollate, l’istituto di pena nato venticinque anni fa su iniziativa di un gruppo di riformatori, tra cui il direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, sulla base di un principio fondamentale, quello della dignità della persona. E di conseguenza con la decisione di tenere le celle aperte per tutta la giornata e di considerarle solo luoghi dove andare a dormire.

Lo studio, il teatro e soprattutto il lavoro sono stati, e tuttora sono, l’apriscatole per combattere la recidiva. Un modello riuscito, se si pensa che, mentre i detenuti usciti da altri istituti di pena hanno il 60-70% di probabilità di commettere di nuovo qualche reato, la recidiva media di Bollate si attesta al 7%. Impegnare i detenuti nel lavoro è l’intuizione più fortunata. Lo avevano ben compreso i rappresentanti di governi di sinistra, quando l’istituto di pena-modello fu inaugurato dal ministro Piero Fassino, e lo aveva condiviso Silvio Berlusconi che inviò a una seconda inaugurazione il suo guardasigilli Roberto Castelli.

Ora non si può pensare, come qualcuno sta già facendo, di buttare a mare un esperimento che funziona e che sarebbe invece opportuno estendere il più possibile a tutta Italia. Non dimentichiamo mai quante condanne il nostro Paese ha portato a casa dai vari organismi europei proprio per le condizioni delle nostre carceri, sovraffollate fino a “ospitare” ben 11.000 detenuti in più rispetto alla capienza. Per non parlare della fatiscenza e degli spazi angusti delle celle.

Certo, Emanuele De Maria pareva un frutto benigno dell’albero modello di Bollate, e apparentemente non lo era. In realtà lo era. Una volta scontato in carcere un terzo della pena, nel novembre del 2023 aveva ottenuto l’applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario sul lavoro esterno, con un contratto a tempo determinato, che un anno dopo era stato trasformato in indeterminato. Era stato mandato a lavorare in un albergo di Milano, l’hotel Berna di via Napo Torriani, nella zona di Piazza della Repubblica, anche perché conosceva cinque lingue. Il suo datore di lavoro era più che soddisfatto del risultato.

Che cosa dunque non ha funzionato in questo ingranaggio perfetto? Semplicemente l’imprevisto, l’imprevedibile. Sarà anche vero, come sospettano i magistrati della procura che stanno indagando su quel che è successo tra venerdì 9 maggio, con l’uccisione di Chamila Wijesuriya, e poi sabato con il ferimento del collega egiziano e il finale della tragedia con il volo del detenuto da una terrazza del Duomo di Milano, che tutto era premeditato. Ma forse non è andata così.

Forse è scattato all’improvviso nella mente dell’omicida-suicida qualche cosa che ha funzionato come sassolino che ha rotto un ingranaggio fino a quel momento perfetto. Ed è inutile, come ci è parso di capire dalle parole del sindaco di Milano, Beppe Sala, domandarsi su come «spiegare alla gente perché fosse fuori». Emanuele De Maria era “fuori” dal carcere, perché nei suoi confronti la legge aveva funzionato.

Il processo di dieci anni fa per l’omicidio di una prostituta, aveva avuto come conclusione la condanna a 14 anni perché i giudici non avevano ritenuto di applicare nessuna delle aggravanti che portano poi all’ergastolo. E altri giudici, quelli dell’appello, avevano ridotto la pena a 12 anni. Il che pare quasi un miracolo, in tempi in cui il carcere a vita viene invocato ogni giorno per qualunque reato. Se poi De Maria era a un certo punto sbarcato a Bollate, il suo era stato una sorta di premio in quanto, nelle altre carceri in cui aveva soggiornato, aveva mostrato sensibilità nei confronti degli altri detenuti e dei loro problemi.

Il suo difensore Francesco De Tommasi era intenzionato a chiedere per lui la semi-libertà. Anche lui non riesce a spiegare l’inspiegabile. Non c’è molto da dire ai cittadini quindi, Sindaco Sala, se non queste poche parole. Se De Maria fosse rimasto in vita, sarebbe stata materia di uno psichiatra, la spiegazione per il suo comportamento. Certamente non della politica, men che meno del ministero. Che potrebbe mobilitare i propri ispettori per altro, per comportamenti che nulla hanno a che fare con quello che è successo nello scorso fine settimana a Milano.

Questa volta i giudici del tribunale di sorveglianza che hanno concesso a De Maria il permesso di lavoro esterno al carcere , così come la direzione che lo aveva chiesto, sono innocenti. Hanno svolto il proprio dovere. Al di là dell’imprevisto e imprevedibile. E il “metodo Bollate” andrebbe comunque e sempre premiato ed esteso, non criminalizzato.