Ma insomma, dottore: voi magistrati non eravate i ministri del Bene? I dispensatori della Morale, gli esorcisti del Male assoluto? Come le è venuto in mente di scrivere, a proposito dei figli dei boss che il Csm vuole separare dalle loro famiglie, che se un ambiente criminale può generare criminalità, è altrettanto vero che pure la deprivazione degli affetti familiari può provocare il medesimo risultato”? E soprattutto, di insinuare come non sia affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattato onesto, piuttosto che un delinquente psichicamente equilibrato”? «Una delle conseguenze della perdita di giurisdizione che si è verificata in questi ultimi anni è proprio la deriva della cultura del magistrato verso il moralismo», dice Nicola Quatrano, storico magistrato anticamorra del Tribunale di Napoli. «Lo si vede nelle singole decisioni prima ancora che in formulazioni teoriche come quella per cui, secondo la delibera del Csm, le famiglie dei mafiosi sarebbero di per sé ‘ maltrattanti’ nei confronti dei loro figli».

Nicola Quatrano non è un magistrato qualsiasi. Da pm è stato protagonista delle indagini sulla “Tangentopoli partenopea”, da giudice ha inflitto ergastoli a boss del calibro di Carmine Alfieri. Oggi presiede uno dei collegi del Riesame al Tribunale di Napoli. Ma non si tratta solo delle attività con la toga addosso: Quatrano è un militante. Di sinistra. Fa missioni in Mauritania come osservatore internazionale per i diritti umani. Scrive sul Corriere del Mezzogiorno, dorso campano del Corriere della Sera. E martedì scorso ha firmato un editoriale in cui ha sostenuto appunto che forse non è interesse di un minore figlio di camorristi avere la fedina penale pulita ma sviluppare un disagio per il distacco dai genitori. Detto da un magistrato potrà suonare peggio di una bestemmia. Forse è solo un atto d’amore per la verità.

Va bene dottore. Complimenti per il coraggio. Ma chissà che diranno alcuni suoi colleghi.

La deriva moralistica c’è, in certe decisioni è evidente. Quando si tratta di teorizzare, invece, è più difficile che un magistrato ceda a quel tipo di impostazione, anche se poi capitano delibere come quella approvata alcuni giorni fa dal Csm: la «famiglia mafiosa» sarebbe di per sé «maltrattante» nei confronti dei bambini. E su quale presupposto si fonda l’analisi? Sul fatto che essere mafiosi non è bello?

Non è chiaro.

Un conto è il disagio che deriva da condizioni di degrado, di estrema povertà, da una quadro psicologico non adeguato dei genitori: e lì intervengono i servizi sociali. Ma non è che il contesto mafioso comporti di per sé tale condizione degradante. Ci sono figli di boss che vengono mandati a studiare all’estero. Mi chiedo cosa c’entri quell’inoltrarsi nel presunto carattere ‘ maltrattante’ delle famiglie mafiose con i compiti del giudice. Oltre che con gli interessi del bambini.

La sua è una prospettiva molto lontana dal mainstream dell’antimafia.

Ma no, moltissimi miei colleghi la pensano in questo modo, magari non sono quelli che amano apparire, ma il buonsenso esiste anche tra i magistrati.

Secondo Rosy Bindi il Mattino ha criticato aspramente il nuovo Codice antimafia perché, acrobatico sillogismo, è edito da un costruttore. Chissà cosa dirà di lei.

Non cerchi di spingermi su questo terreno. Nel momento in cui scelgo di dire pubblicamente queste cose mi espongo a legittime critiche, certo: le ascolterò. Ma le sue ipotesi maliziose sono inutili.

La delibera sui figli da portar via ai boss, i sequestri preventivi ai corrotti: tutti prodotti di una stessa logica?

Credo proprio di sì. E il problema, come ho scritto sul Corriere del Mezzogiorno, è che non ci si ferma un attimo a riflettere su questi anni di misure severissime, di pene sempre più alte: una corsa sfrenata. Ebbene: cosa hanno prodotto? Certo, alcuni grandi cartelli criminali sono stati scompaginati, ma non è affatto detto che la qualità della vita delle persone sia migliorata. C’è in giro una violenza sempre più incontrollabile, la droga continua a scorrere a fiumi, non c’è una piazza di spaccio che sia stata chiusa davvero. Quando la criminalità è così diffusa e al Sud coinvolge così ampie fasce di popolazione, come si fa a liquidarla come un fenomeno esclusivamente criminale, a non riconoscere che si tratta di una questione sociale, politica, che in termini politici va affrontata, oltre che con misure repressive?

E invece i sequestri “di prevenzione” si estendono dalle indagini di mafia a quelle per corruzione.

Avevo riserve anche sui sequestri ai mafiosi, considerato che il Codice li consente anche in presenza di elementi indiziari modesti. È vero che la Cassazione parla di valutazioni più approfondite, di previsione di condanne, ma resta un’enorme sproporzione tra la gravità dei possibili effetti che queste misure possono avere e il livello modesto del quadro indiziario richiesto per applicarle. A maggior ragione non mi convince l’allargamento a un’altra tipologia di reati, come quelli contro la pubblica amministrazione.

Quali sono i “gravi effetti”?

Sequestrare un’azienda è peggio che sbattere una persona in carcere per cinque anni. Finire in cella da innocenti è terribile ma non irrimediabile. Se ti portano via l’azienda, e chi la prende in carico non è capace di tenerla in vita, quando ti assolvono ti trovi un cumulo di macerie al posto di quello che avevi realizzato in una vita. Molto peggio. Tutto questo, appunto, come se si avesse una benda sugli occhi e non ci si rendesse conto delle conseguenze di determinate scelte.

Persino magistrati come lei e Cantone restano inascoltati: perché?

Credo ci sia una forte influenza dell’antimafia militante, o dell’anticriminalità militante com’è più corretto definirla: un sistema, per non dire una lobby, che coinvolge esponenti delle Procure come della società civile. La loro impostazione trova pieno accoglimento e sostegno da parte della stampa e del legislatore: sono forti. Ma il vero nodo non è neppure questo.

E qual è?

Il punto è che in tutti in questi anni non c’è mai stato un momento di riflessione sulla validità di determinate politiche di contrasto del crimine organizzato. Adesso non c’è neppure più l’alibi dell’inadeguatezza degli strumenti. Abbiamo alle spalle 25 anni di attenzione straordinaria, apparati giudiziari e di polizia operativi giorno per giorno. Se nonostante tutto questo la violenza, la droga e le piazze di spaccio restano, non è che c’è qualcosa di sbagliato?

A quali alternative pensa?

Depenalizzare la droga, per esempio, piuttosto che reprimerne l’uso. Sarebbe una soluzione migliore, meno costosa e meno tragica per l’esistenza di centinaia di migliaia di persone.

Si riferisce ai consumatori?

No: a quelli che la droga la vendono. Il mio sogno è che la vitalità imprenditoriale dimostrata dai clan di Scampia nell’inventare la cocaina low cost possa esprimersi in un’attività lecita. Ma mi rendo conto che è complicato e perciò sono favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, anzi mi augurerei che la si estendesse a tutte le droghe, sotto il controllo dello Stato. La Dna lo propone, inascoltata, da anni. Il punto di partenza è decidere, a proposito dei criminali, se parliamo di nemici da annientare o di problema da risolvere. Nel primo caso, buttiamo la chiave. Altrimenti proviamo a offrire qualche alternativa di lavoro: perché oggi, a Scampia, non è che un ragazzo abbia molte alternative allo spaccio. Sarà brutto per qualcuno, ma è così.