IL LAVORO RENDE LIBERI?

FOUNDER ECONOMIA CARCERARIA

Nella seconda metà dell’ 800 il nascente Stato italiano formato sotto la guida Savoia sceglie di seguire il modello del carcere Auberniano.

Si riconosce quindi al lavoro una parte fondamentale e addirittura obbligatoria nell’esecuzione penale.

Un'obbligatorietà che si ritiene più importante dell’effettiva utilità o funzione pratica del lavoro.

L'obiettivo non era quello di rendere un contributo alla società attraverso il lavoro della persona detenuta ma semplicemente plasmare il carattere ed il comportamento della persona deviante ad un’etica ed un’abitudine al lavoro.

Tale impostazione fu comune sia nel codice Zanardelli sia nel codice Rocco, mentre l’isolamento cellulare, previsto nel modello di Auburn al fine di impedire gli effetti criminogeni del carcere, fu abolito solamente nel 1922.

L’esaltazione del lavoro non fu caratteristica solo italiana ma di tutta l’Europa, figlia sicuramente di un’etica calvinista e protestante che vedeva nel lavoro un’importante fonte di riscatto delle miserie umane anche da un punto di visto religioso e avvalorato dalle tesi borghesi e illuministiche che vedevano nel lavoro la massima espressione dell’uomo.

Tesi che furono spinte fino all’estremo dalla propaganda e narrazione nazista, si ritornò al lavoro forzato e all’utilizzo di cavie umane per progressi scientifici, il tutto sotto l’inganno della tristemente nota frase “Arbeit Macht Frei”: Il lavoro rende liberi. Liberi sì, ma attraverso la morte.

Furono eventi che scossero il mondo intero e con la fine della guerra nulla fu come prima, fu necessario un importante sforzo di riflessione politica, filosofica e sociale per inaugurare una nuova stagione allontanando gli orrori che le dittature portarono in Europa.

In Italia i lavori dell’Assemblea costituente durarono due anni e l’articolo 27 fu il frutto di una lunga mediazione tra la Scuola Classica e la Scuola Positiva. La prima legata al carattere etico- retributivo della pena, la seconda di matrice illuminista che ha avuto il merito di spostare l’attenzione dallo studio del reato allo studio del reo.

Fu abolita la pena di morte, riconoscendo il principio che lo Stato non può macchiarsi di una colpa più grave di quella commessa dal condannato. Fu riconosciuto che la responsabilità penale è personale ed infine che le pena non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del detenuto.

Da notare che in Costituzione non fu mai introdotta la parola carcere e nemmeno il rapporto tra lavoro e carcere, perché se è vero che il lavoro può dimostrarsi un importante strumento per la risocializzazione e rieducazione del detenuto è anche vero che tale strumento evolve con la storia umana, e lo stesso si può dire sull’istituzione “carcere” che può e deve essere vista solo come una tra diverse pene, e non l’unica.