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Carceri
Il ronzio monotono delle luci in corridoio s’interrompe solo quando B. B. alza le braccia e tenta di orientarsi con la stampella: un gesto che somiglia a un atto di fiducia, eppure si traduce in inciampi, urti contro il bordo del letto, un sordo tonfo a terra. In quasi trenta anni di detenzione, quell’uomo di novant’anni non aveva mai conosciuto una simile fragilità. Ma la vera svolta è arrivata il 28 giugno 2025, quando ha scoperto – senza che nessuno in carcere se ne accorgesse davvero – di aver perso la vista all’occhio destro.
Per quattordici giorni la sua richiesta di soccorso è rimasta lettera morta. Nessun medico penitenziario, nessuna ambulanza interna, nessuna parola di conforto: soltanto il silenzio di chi - pur responsabile della sua salute - ha deciso che non era urgente. È soltanto dopo due settimane che la direzione del carcere di Opera si “accorge” del problema e programma per il 14 luglio una visita oculistica al Fatebenefratelli di Milano. Ma il 14 luglio la cecità colpisce anche l’altro occhio, e solo il giorno successivo B. B. ottiene una TAC cranica.


L’avvocata Simona Giannetti, suo legale, ha potuto apprendere la cecità totale di un uomo che negli anni ’ 90 - quando entrò dietro le mura di Opera - aveva ancora il sapore delle televisioni a tubo catodico e delle riviste ingiallite. Ma per la Casa di Reclusione, nei documenti ufficiali, quella diagnosi è soltanto una scusa per restare nel suo limbo: la cartella clinica di B. B. non è mai stata consegnata al tutore P. B. né alla difesa, nonostante entrambi fossero legittimati a fornire il consenso informato ai trattamenti.
Dal 21 al 28 luglio l’avvocata Giannetti invia diffide e solleciti: prima alla direzione sanitaria, poi al Magistrato di Sorveglianza di Milano, chiedendo un ricovero urgente, il trasferimento in ospedale e l’accesso ai documenti clinici. Ogni lettera è un grido di rabbia civile: «È irrimediabilmente violato l’articolo 32 della Costituzione», scrive, «il diritto alla salute non può essere soggetto a rinvii o interpretazioni» : eppure nessuna risposta è arrivata. L’istanza depositata il 25 luglio giace su un tavolo senza data di discussione, come se il tempo delle carte avesse meno valore di quello di un detenuto senza vista. A quest’ultima è seguita ordinanza istruttoria del Magistrato di Sorveglianza che ha chiesto una relazione al carcere -, non ancora decisa.
Nel frattempo, la difesa tenta un altro appello: un permesso premio di poche ore, per permettere a B. B. di coltivare gratuitamente un pezzetto di giardino di una parrocchia di fronte al carcere. Il parroco, vecchia conoscenza di B. B., si era offerto di seguirlo, ma rigettata la richiesta con motivazioni che suonano come una beffa: «assenza di prova di revisione critica», «mancata partecipazione ai corsi di giustizia riparativa», corsi che un novantenne e cieco non può certo frequentare. È qui il paradosso: la “collaborazione” diventa un requisito astratto che nessuno si cura di spiegare, mentre il diritto alla cura – sancito dall’articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario – è un’idea rimasta sulla carta. Nei rapporti medici, infatti, si parla di “declino cognitivo”, di «necessità di monitoraggio neurologico e assistenza quotidiana», ma in cella l’unico supporto è fornito da un compagno di reclusione ultra- settantenne, che gli versa la minestra, rifà il letto, lo sorregge quando la stampella lo abbandona. La storia di B. B. non è un caso isolato: è il tragico specchio di un sistema che, di fronte all’urgenza di un novantenne cieco, preferisce aggrapparsi a formalismi e cavilli anziché al buon senso. I silenzi di Opera diventano il coro di un’apparente normalità, in cui perfino la Cassazione, nel rigettare il ricorso sul permesso premio, non ha sentito il bisogno di prendere in considerazione la sua salute.
Adesso si confida almeno a un interessamento del Garante regionale lombardo per le persone private della libertà personale. La lettera inviata dall’avvocata Giannetti è un documento implacabile: punto per punto ricostruisce le istanze inevase, il mancato dialogo tra amministrazione e direzione sanitaria, il rifiuto sistematico di ogni apertura. È un appello che chiede solo due cose banali: un ricovero urgente e la consegna della cartella clinica. Ma è abbastanza per restituire a B. B. l’ultimo scampolo di umanità che gli rimane. Se le istituzioni non interverranno, la vera sconfitta non sarà la cecità di un uomo di novant’anni, ma il rifiuto di riconoscerlo come persona. E la pena più dura non sarà quella già scontata per intero, ma l’indifferenza che continua a trattarlo come un’ombra. Sulla carta, lo scopo dell’espiazione della pena è ben altro. Come la costituzione insegna.